Ministero dell'Economia e delle Finanze

Ministero dell'Economia e delle Finanze

sabato 22 novembre 2014

Il diritto dei padroni.


Nessun colpevole, nessuna responsabilità: è questo il risultato della sentenza emessa dalla Corte di Cassazione in merito alla vicenda Eternit.

Dopo due ore di camera di consiglio, la Corte ha accolto la richiesta del Procuratore Generale che aveva invocato l'annullamento, senza rinvio, della precedente sentenza della Corte d'Appello di Torino nei confronti della ditta elvetico-belga per intervenuta prescrizione.
Cancellata, dunque, con un colpo di spugna la condanna a 18 anni per il reato di disastro ambientale doloso, emessa nel giugno del 2013 a carico del magnate svizzero Stephen Schmidhein, ex presidente del consiglio di amministrazione di Eternit.
E grazie alla prescrizione, spariscono anche tutti i risarcimenti per i familiari delle vittime.
I morti di tumore per l'inalazione delle polveri d'amianto emesse negli stabilimenti italiani della multinazionale Eternit, dunque, sono una tragica fatalità per i quali non esistono colpevoli.
La sentenza, quindi, è da considerare come l'ennesimo schiaffo in faccia a chi è stato sacrificato sull'altare del profitto, perché pretende ancora una volta di riscrivere e cancellare la dolorosa verità che, invece, è sotto gli occhi di tutti, da anni.
Gongola soddisfatto il padrone, che oggi può cullarsi sereno nel verdetto che lo assolve definitivamente da ogni responsabilità e gli garantisce il diritto di parlare con arroganza di quello che ritiene "un processo ingiustificato" al suo operato.
Per questo la pronuncia della Corte di Cassazione non è solo un insulto alle vittime dell'Eternit, ma è l'ennesima vittoria dei padroni.
E' la conferma che i "tempi della giustizia" corrono con velocità diverse, abusando degli strumenti, come la prescrizione, per continuare ad assolvere sistematicamente il capitale, gli appetiti di potere e di profitto.
Basta guardare le cronache dell’ultimo mese: annullamento della condanna al Questore di Genova in uno dei processi per le violenze al G8 del 2001; assoluzione dei boss nel procedimento per le minacce a Roberto Saviano e Rosaria Capacchione; assoluzione della Commissione Grandi Rischi, nell’ambito delle inchieste per il terremoto in Abruzzo; assoluzione dei medici e delle forze dell’ordine per la morte di Stefano Cucchi, omicidio di Stato senza responsabili.
La sentenza nel maxi-processo Eternit è solo l’avvelenata ciliegina sulla torta.
Il nostro pensiero, quindi, non può che correre alla decine di condanne che vengono inflitte in questi giorni dai vari palazzi di giustizia nei confronti di chi, invece, si oppone a questo sistema, di chi lotta ogni giorno per difendere il lavoro, di chi reclama reddito e diritto all'abitare, contro chi fa resistenza all'occupazione militare e alla devastazione del territorio, di chi lacera coscienze e corpi; centinaia di imputati, migliaia di indagati, decine di persone sottoposte alla restrizione della libertà, dall'obbligo o divieto di dimora al foglio di via, agli arresti domiciliari, multe per migliaia di euro, aule bunker stracolme, centinaia di anni di pena richiesti dalla pubblica accusa, tutto questo mentre gli interessi del capitale continuano ad essere tutelati, protetti, sollevati da ogni responsabilità.
Per questo la sentenza non solo lascia senza colpevoli la vicenda Eternit, ma rassicura e strizza l'occhio all'arroganza dei padroni, confermando che ci sono priorità da tutelare che usciranno sempre indenni dalle aule di giustizia: la logica del profitto e l'arricchimento ad ogni costo, a discapito di salute, dignità e sicurezza dei lavoratori.
Molti parlano di sentenza-beffa, si stracciano le vesti, strepitano e si dissociano; ma da che cosa si dissociano se sono proprio loro gli artefici, i responsabili che considerano sottoposti a scadenza, come uno yogurt, i reati di “disastro ambientale doloso permanente” e di “omissione volontaria di cautele antinfortunistiche”, dopo che hanno fatto ammalare e morire di tumore?
Questo è il prezzo, l’obolo da pagare in questo procedimento di accusa contro l’amianto assassino che ha falciato la vita di oltre tremila persone, operai dell’Eternit e abitanti delle zone contaminate dal fibrocemento, mistura di cemento e amianto a presa lenta ed elevata resistenza, adoperata per la realizzazione di tegole, lastre e tubature.
Chi si sciacqua la bocca invocando "lo stato di diritto" non ha compreso che esistono solo ed esclusivamente i rapporti di forza tra le classi; tra le classi subalterne e quelle egemoni, dominanti.
Il capitalismo uccide e viene sempre salvato.

giovedì 13 novembre 2014

Batte il tempo dello sciopero sociale!


Il #14N in più di cento città italiane e in tantissime città europee, scenderanno in piazza tutti quelli che desiderano tornare ad essere protagonisti delle proprie vite e che vogliono riprendere parola per urlare il loro rifiuto ad un futuro fatto di povertà, di lavoro gratuito e di precarietà permanente.
Lavoratori e lavoratrici precari/e, lavoratori e lavoratrici garantiti/e, partite iva, migranti, studenti e studentesse scenderanno nelle piazze per chiedere l’immediato ritiro del jobs act e della legge di stabilità e l’istituzione di un salario minimo europeo, di un reddito di base incondizionato e di autoderminazione e di un welfare universale.
Durante la giornata di domani, tutte le soggettività e le biografie che dentro e fuori il mercato del lavoro vengono sfruttate e ricattate, che vengono espropriate della loro ricchezza senza che a ciò corrisponda una retribuzione, diventeranno degli Strikers!
Si sciopererà dal lavoro, dalla produzione di sapere, da tutte le forme di lavoro gratuito di cui è piena la vita di tanti.
La piattaforma dello sciopero non può che comporre le istanze che segnano il mondo del lavoro e della formazione, del non lavoro e della cooperazione sociale.
Rifiutare e respingere il Jobs Act e la riforma renziana della scuola, oltre alla nuova stagione di privatizzazione e mercificazione dei beni comuni, in generale la trasformazione neoliberale del mercato del lavoro e la rinazionalizzazione della cittadinanza, significa infatti battersi per un nuovo welfare, per il diritto all’abitare, per il reddito europeo sganciato dalla prestazione lavorativa, per il salario minimo europeo, per l’accesso gratuito all’istruzione, e lottare contro i dispositivi di selezione e di controllo che, attraverso le retoriche meritocratiche, aprono le porte delle scuole e delle università ai privati e fanno del sapere strumento docile degli interessi d’impresa.
Non c’è solo la disoccupazione a colpire giovani e meno giovani, non è solo la sottoccupazione a trafiggere milioni di donne e di uomini.
Si tratta del nuovo mantra dell’occupabilità che spinge ad accettare il lavoro purché sia, quello senza diritti e, addirittura, gratuito (vedi il modello Expo).
Rivendicare reddito garantito e salario minimo europeo deve, quindi, procedere di pari passo con la pretesa della libertà e della democrazia sindacale, del diritto di coalizione e di sciopero, dentro e fuori i posti di lavoro.
Ancora: senza la difesa dei beni comuni e la riappropriazione democratica del welfare è impensabile un processo di conflitto espansivo che sappia mettere all’angolo la gestione neoliberale della crisi.
Una piattaforma comune, amplia, quindi, per uno sciopero sociale che sappia combinare le diverse forme di lotta e di sciopero sperimentate e progettarne di nuove, potenzialmente capaci di estendersi su scala europea: lo sciopero generale del lavoro dipendente, lo sciopero precario e metropolitano, lo sciopero di chi non ha diritto di sciopero, il netstrike, lo sciopero nei luoghi della formazione, lo sciopero di genere.
Un caleidoscopio di pratiche che sono state costruite pazientemente attraverso dei veri e propri laboratori territoriali dello sciopero.
Domani, sciopero sociale perchè se ci vogliono precari, ci avranno inflessibili!
Il #14N incrociamo le braccia, incrociamo le lotte!

lunedì 13 ottobre 2014

La meglio gioventù.

Un giorno di pioggia intensa e a Genova si manifesta, per l’ennesima volta, l’intesa perfetta tra urbanizzazione e stagione delle piogge.
L’ennesima, repentina, alluvione; insomma, un déjà vu.
A una quantomeno strana estate, è seguito un torrido settembre e, così, nel giro di pochi giorni, le prime piogge torrenziali hanno di nuovo bussato alla porta di Genova.
Senza scomodare i cambiamenti climatici, certamente influenti sulle dinamiche meteorologiche e ecologiche dell’area del mediterraneo; senza dilungarsi sui fenomeni meteorologici importanti a cui è sottoposta questa particolare area geografica; senza inoltrarsi nella climatologia ligure, con piogge intense e ben localizzate, né nelle dinamiche idrografiche e del regime torrentizio ligure, è evidente che, a Genova, così come in tante altre parti del nostro territorio, il problema è l’urbanizzazione e la saturazione di cemento e infrastrutture, il cui impatto sull’ambiente è, ormai, sotto gli occhi di tutti, innegabile.
Chi dice il contrario, chi nega, mente, parla in malafede o in ignoranza.
La causa dell’alluvione, degli allagamenti, di tutti i “danni” della pioggia, sono da addebitare esclusivamente alla colata di cemento a cui è sottoposto il territorio genovese dallo scorso secolo, a chi l’ha voluta, sostenuta e sviluppata, a quella classe dirigente politico-economica assassina che, tutt’ora, persevera nel gonfiarsi le tasche con la distruzione del territorio, dividendosi il bottino con aziende, lobby e affaristi senza scrupoli.
Non è una caso che le zone più colpite, ancora una volta, siano i quartieri collinari e le aree urbane a fondo delle valli genovesi.
Ma è tutta la città di Genova, da ponente a levante, a subire di nuovo i disastri voluti dalla classe politico-economica, fautrice locale di quel modello di sviluppo che sta devastando il pianeta: lo sviluppo capitalista.
Aggressione edilizia del territorio, estesi disboscamenti, sfruttamento delle aree fluviali, urbanizzazione con il suo treno di cementificazione, di dissesto idrogeologico e costrizione delle dinamiche idrografiche naturali, industrializzazione, sono all’origine dell’eterna emergenza di Genova, così come di tante altre città del nostro paese.
Ebbene, vediamo che negli anni la classe dirigente ha trovato sempre il modo di tradurre i disastri che ha causato in nuovi profitti e nuovi progetti distruttivi (oltre che in più ampi spazi di potere e controllo), di nascondere tutto sotto una spessa coltre di menzogne; e, senza neanche domandarsi se fosse il caso di fermarsi, ha continuato (per nulla indisturbata) a perseverare nel distruggere il territorio per farne profitto.
Le esondazioni dei numerosi torrenti e di quelli minori, sono fenomeni naturali; a non esserlo sono il contesto urbano che le determina e caratterizza, in cui avvengono e in cui sono costrette, con tutte le conseguenze.
Ancora una volta, quindi, un fiume di fango dovuto al dilavamento delle zone disboscate per i cantieri del TAV-Terzo Valico, ha invaso il territorio.
Laddove sorgevano i boschi e le colline, sorgono ora due enormi cantieri dell’Alta Velocità, con la sentita partecipazione del Comune di Genova, Regione Liguria e dello Stato Italiano.
Qui, fino all’anno scorso, vivevano le due colline, che giorno dopo giorno vedevano la città avvicinarsi minacciosa sempre più.
I loro boschi saldavano i versanti, impedivano il veloce scorrere dell’acqua, ne rallentavano la forza.
Ora, lì hanno avuto la meglio i cantieri del TAV-Terzo Valico; benne, ruspe, trivelle, camion e gallerie hanno sostituito quelle distese di alberi e le conseguenze non hanno tardato a presentarsi.
Ma questo, purtroppo, è solo l’inizio.
È l’Italia intera che rischia di crollare sotto i colpi dell’abbandono della cultura della manutenzione e della progressiva cementificazione del territorio.
Paghiamo, quindi, un prezzo inaudito in termini di perdite di vite umane, di lavoro e di ricchezza di fronte a quello che sta avvenendo; basta pensare che il decreto “Sblocca Italia”, all’articolo 7, stanzia 110 milioni per la riduzione del rischio idrogeologico mentre, all’articolo 3, vengono destinati quattro miliardi di euro al sistema delle “Grandi opere”, che è affondato nella corruzione e ha svuotato le casse dello Stato.
Chi ancora avrà il coraggio di dire che le priorità, non solo di Genova, sono le grandi opere, si commenta da solo; quello che abbiamo sotto gli occhi oggi, ancora una volta, è lo scenario a cui ci vorrebbero abituare, se non fermiamo i loro piani scellerati.
Questo è il triste futuro a cui ci vorrebbero rassegnati e impotenti.
Purtroppo, la realtà dei fatti ci travolge ma c’è ancora chi si oppone a questo modello di sviluppo; c’è chi dice NO, chi lotta, chi resiste a questa devastante e disastrosa idea di mondo.
Lo scenario di oggi fa rabbia, rabbia enorme; ma bisogna continuare a lottare perché la borghesia, per esistere, deve produrre profitto anche se questo significa devastare il territorio e mettere a repentaglio lo stesso apparato produttivo di domani.
Il capitalismo pensa di fornire all’uomo la capacità di migliorare la propria esistenza controllando la natura, ma usa il pianeta come mero strumento di produzione da sfruttare fino a mettere a repentaglio la stessa esistenza.

Solo un sistema basato sui bisogni delle persone e non sul profitto, può mettere fine al saccheggio ambientale oltre che, a sfruttamento, a guerre e a morti.

mercoledì 24 settembre 2014

Articolo 18 e Jobs Act

In questi giorni assistiamo ad un “ritorno di fiamma” sulla volontà del governo di abolire l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori facendo calare, in questo modo, il silenzio sulla famosa riforma del lavoro, il “jobs act”, che approda domani all'esame dell'aula del Senato.
Infatti, il cosiddetto “jobs act” rischia di passare sotto silenzio proprio a causa di una diatriba assolutamente fuorviante quella, cioè, sulla presunta conservazione o abolizione dell’articolo 18.
Noi siamo convinti, invece, che non sia quello il centro del discorso; anzi, paradossalmente è l’aspetto meno decisivo della riforma proposta.
Intendiamoci, l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori non solo è un perno centrale dei diritti dei lavoratori sul posto di lavoro perché li protegge effettivamente dai licenziamenti ingiustificati ma, anche, perché li protegge simbolicamente.
Senza quel simbolo, vero e proprio argine ideale allo strapotere capitalista anche nei rapporti insiti nella formalità contrattuale, la deriva sarebbe inevitabile.
Per capirci, basta fare un esempio: in Spagna l’abolizione di un vincolo simile all’articolo 18 ha visto non solo l’aumento indiscriminato dei licenziamenti senza giustificato motivo, ma il corrispettivo indennizzo economico al lavoratore licenziato si è mano a mano ristretto fino a diventare una ridicola liquidazione di poche mensilità.
Insomma, l’argine dell’articolo 18 permette anche, o forse soprattutto, il mantenimento di un eventuale rilevante indennizzo economico per cui potrebbe optare il lavoratore licenziato.
L’azienda, cercando di impedire ad ogni costo il reinserimento del lavoratore, con l’articolo 18 è portata a pagare “pesantemente” l’eventuale licenziamento.
Senza articolo 18, questo rapporto di forza cesserebbe, rendendo ininfluente la cifra da versare al lavoratore licenziato.
La sostituzione del reintegro con l’indennizzo è, quindi, una bufala: già è così nei fatti e, senza articolo 18, non lo sarà più, non ci sarà alcun indennizzo ma solo una mancia senza dignità.
Sgomberato, pertanto, qualunque eventuale equivoco sulla rilevanza che per noi ha l’articolo 18, l’intenzione dell’apparato mediatico-politico dispiegato però è proprio quello di far concentrare l’attenzione solo ed esclusivamente sul feticcio “articolo18” lasciando, così, in ombra, o addirittura promuovendo, tutto il resto della riforma.
Anzitutto, tale riforma poggia su una retorica ideale assolutamente fallace, quella per cui per allargare i diritti dei precari, nonché risolvere la loro perenne disoccupazione, bisognerebbe restringere i diritti dei lavoratori cosiddetti garantiti. Anzi, sembrerebbe essere proprio questa massa di “garantiti” la causa principale delle condizioni di vita dei milioni di precari e disoccupati presenti nel nostro paese, nonché nel resto d’Europa.
L’associazione mentale-ideologica tra chi difende e rappresenta i “garantiti” e il governo protettore dei precari è presto fatta, costruendo quel meccanismo ideologico semplice e opportunista per cui sarebbero stati “solo” i sindacati i responsabili dell’allargamento universale del precariato lavorativo.
Non saremo certo noi a difendere l’operato dei sindacati; infatti, da tempo immemore non solo questi hanno abbandonato ogni ipotesi di conflittualità e, dunque, di difesa attiva dei diritti dei lavoratori nel posto di lavoro, ma hanno svolto anche una parte da protagonisti sulla deregolamentazione del mercato del lavoro in favore del padronato.
Detto questo, quindi, noi riteniamo che l’esplosione del precariato è stata determinata in questi anni esattamente da quelle politiche economiche liberiste portate avanti dal riformismo liberale che, oggi, governa il paese.
A partire dal pacchetto Treu, fino ai giorni nostri, tutte le riforme che si sono susseguite, viste benevolmente dal sindacato, sono proprio il frutto di quella visione politica dominante che sulle riforme del lavoro viaggia alla stessa velocità e nella stessa direzione.
Per comprendere tutto ciò, è opportuno, per chi è intenzionato a proseguire la lettura, rilevare le caratteristiche salienti di questa ennesima riforma del mercato del lavoro, caratteristiche decisive ed epocali, su cui nessuno si sofferma se non per apprezzarle o considerarle necessarie e improrogabili.


1)      La riforma del mercato del lavoro istituisce definitivamente i cosiddetti “mini jobs”, sia prevedendoli direttamente sia espandendo la potenziale utilizzazione del contratto d’apprendistato per i nuovi entrati nel mondo del lavoro. Questo strumento, che è alla base della competitività tedesca, è il cuore stesso della riforma. Attraverso i mini jobs sarà possibile per l’azienda di turno, modellare efficacemente la produzione al “just in time”, assumendo lavoratori sottopagati nei picchi di produttività con la garanzia di licenziarli appena la produzione rientra nella normalità. Il cuore stesso della competitività tedesca, come dicevamo: da una parte, la grande massa dei non garantiti su cui si fonda l’estrema produttività della propria economia; dall’altra, un ristretto nucleo di operai, con stipendi alti e super-contrattualizzati, rappresentanti da sindacati inseriti nell’organizzazione aziendale di cui godono profitti e rendite.
2)      Il modello tedesco, su cui è imperniata tutta la riforma del "jobs act" del governo, poggia su un sistema economico orientato esclusivamente all’export. Questo fatto, che potrebbe apparire un mero dato tecnico è, invece, centrale per capire come si va riorganizzando la produzione italiana. Un mercato costruito sulle esportazioni non prevede lo stimolo della domanda interna e, dunque, non ha necessità di livelli salariali capaci di rendere possibile l’assorbimento della produzione nazionale da parte dei lavoratori che la producono materialmente. Il “modello-Germania” è, infatti, basato sulla moderazione salariale, cioè su salari inferiori alla media della produttività. Questo è possibile perché non è importante per il sistema economico tedesco che le merci prodotte siano consumate in Germania. Le merci sono destinate all’estero, e questo rende ininfluente pagare salari tali da consentire al sistema economico di rigenerare se stesso. Dunque, se dovesse passare il “jobs act”, si certificherebbe la riduzione salariale complessiva dei lavoratori dipendenti italiani, contraendo la domanda interna e generando contraddizioni a lungo termine del modello di sviluppo difficilmente affrontabili. Infatti, questo gioco funziona se, all’interno della medesima area monetaria, solo uno è il paese competitivo nel determinato settore di riferimento, ad esempio la manifattura. Se diventano due o più, non potendo gli altri svalutare moneta per rendere più competitive le proprie merci, questi andranno incontro a fenomeni di de-industrializzazione, come infatti sta avvenendo da anni nel nostro paese. L’area monetaria dell’Unione Europea sta andando incontro ad una specializzazione produttiva tale per cui l’area dedita all’industria manifatturiera sarà la Germania; gli altri paesi dovranno specializzarsi in altri campi economici/produttivi. Sembrerebbe una divisione neutra, ma non è così: la capacità industriale consente indipendenza e autonomia politica. Una capacità economica di altro tipo, ad esempio nel settore dei servizi, del turismo, della logistica, porta col tempo alla perdita di autonomia e di indipendenza nei confronti del mercato. Per la Germania sarà sempre possibile “fare da sé”, mentre gli altri paesi saranno dipendenti dai flussi economici esteri, dalle “bizze” dei mercati, ecc.
3)      Lo strumento cardine per favorire il nuovo modello produttivo che dovrebbe partorire tale riforma è l’abolizione della contrattazione nazionale a favore di quella territoriale o aziendale. I motivi sono facilmente intuibili: moltiplicando all’infinito il numero di contratti, decentrando capillarmente ogni decisione e ogni eventuale rapporto di forza strappato con la lotta, i lavoratori perdono la propria capacità di influenzare il sistema delle relazioni industriali a livello generale. Ogni lavoratore sarà solo di fronte all’azienda, non si potrà più contrattare a livello aziendale ciò che si riusciva a strappare a livello nazionale. Mentre la contrattazione a livello nazionale garantiva uguali diritti a tutti i lavoratori interessati, eliminando disparità territoriali o contingenti legati alla situazione di questa o quella azienda, questo o quel padrone, con la contrattazione aziendale non potrà esistere alcun passo in avanti generale. Nessuna vertenza sarà generalizzabile, e le vittorie o le sconfitte saranno esclusive dell’azienda in cui avvengono, impedendo sul nascere avanzamenti sindacali validi erga omnes.

Queste sono, per noi, tre delle caratteristiche centrali della promessa riforma sul lavoro, accettate ormai da tutti perché, sull’altro piatto della bilancia, verrebbero previste tutta una serie di garanzie economiche per chi perde il lavoro o periodi di disoccupazione; insomma, perché si allargherebbe l’intervento statale nel non-lavoro.
Un patto diabolico, che allinea il mercato del lavoro italiano a quello degli altri paesi, visti come riferimento per normali relazioni lavorative fondate sul superamento del rapporto capitale-lavoro in favore della cogestione dei profitti tra azienda e lavoratore.
Una riforma che istituisce, per legge, una divisione dei lavoratori, quelli di serie “A” che possono accedere al contratto “a tutele crescenti” (gigantesca balla reazionaria) e quelli di serie “B”  che consentirà, nei fatti, la competitività delle aziende, cioè la mano d’opera desindacalizzata, sottopagata e senza contratto dell’esercito di apprendisti, stagisti, legati a forme legali del tipo dei mini jobs.
Per questi motivi la discussione solo sull’articolo 18 è fuorviante, un diversivo; in realtà è indispensabile, oltre che opporsi ovviamente all'abrogazione dell'articolo 18, rispedire al mittente l’intero “jobs act”, voluto tenacemente dalla famosa "troika" e mediante il quale si svela il reale volto reazionario di una Unione Europea il cui processo di unificazione è nato dall'esigenza del capitale di dar vita a una giungla di supersfruttamento, di umiliazione per i lavoratori e che non ammette né tollera mediazioni sociali, né freno politico alcuno al proprio procedere imperialista.
Insomma, un vero incubo per i lavoratori, ma una vera manna per il capitale.

venerdì 19 settembre 2014

Stefano ci ha lasciato.

Ieri, Stefano ci ha lasciato.
Dopo Eros, perdiamo anche Stefano.
Sono momenti difficili per noi, in troppi ci stanno lasciando.
Perdiamo non solo un nostro collega di lavoro ma un compagno di lotta con il quale abbiamo percorso tanta strada insieme, anche con momenti divergenti ma puntualmente convergenti sull'obiettivo comune.
Stefano, una vita dura, segnata ma vissuta con caparbietà, tenacia e coraggio, da vero combattente.
Volevi continuare a vivere, hai dato filo da torcere, ti sei aggrappato con tutte le tue forze ma la malattia con te non è stata compassionevole.

Proprio il vivere difficile lo ha caratterizzato nella sua perenne incazzatura; Stefano ha subito non solo le ipocrisie e i torti da parte della nostra amministrazione e dei sindacati collaborazionisti, ma ha vissuto intensamente sulla sua pelle l'attacco portato dal potere contro le fasce più deboli e bisognose, con il taglio al welfare, al sostegno e ai servizi sociali.
Stefano ha pagato un conto salatissimo dell'involuzione delle tutele dei lavoratori pubblici messa in atto negli ultimi 20 anni, sia mediante la svendita dei diritti collettivi che di quelli individuali, di natura contrattuale e legislativa.
Lo vogliamo ricordare, però, con questa immagine, della sua amata squadra, l'unica, "la magica", che lo rendeva, dopo i suoi piccoli ragazzi, sereno e sorridente e che gli apriva il cuore alla felicità.
Siamo sicuri che da lassù sorriderai e approverai.
Caro Stefano, il nostro dolore sarà la tua incazzatura.
Lo sarà sempre più forte.
Che la terra ti sia lieve, almeno quella....

I funerali si terranno sabato 20 settembre 2014 alle alle ore 10.30 presso la Chiesa Santa Maria Regina Mundi – Via Alessandro Barbosi, 6 - Roma.

giovedì 4 settembre 2014

Il blocco.

 


Tra un cartone ed un altro di Peppa Pig, il Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione, Marianna Madia, ha annunciato ieri, a margine dei lavori della commissione Affari Costituzionali del Senato sul ddl delega Pa, il blocco dei contratti degli statali anche per il 2015.
Il Ministro ha spiegato che "in questo momento di crisi le risorse per sbloccare i contratti non ci sono".
Eppure, il prossimo 18 settembre, la BCE elargirà altri 200 miliardi di euro alle banche; insomma, i soldi ci sono ma gli "statali", insieme alle altre categorie di lavoratori e dei settori popolari meno abbienti, dovranno ulteriormente stringere la cinghia e continuare a pagare il costo di una crisi generata dai padroni.
Quindi, l'unica vera propaganda propinata dal governo, vera sostanza e non chiacchiere, è quella del sacrificio.
Per chi avesse ancora dubbi, questo governo è chiamato a gestire l’austerità per conto dei padroni senza che nessuno disturrbi il manovratore, ormai padrone del sistema costituzionale: destrutturazione della scuola pubblica in favore di quella privata, intervento sulle pensioni, inserimento del contratto di lavoro a tutele crescenti, decreto "Sblocca Italia" incentrato sulle grandi opere e sulla privatizzazioni dei beni comuni, blocco dei contratti.
L'obiettivo è quello di spingere ancora più giù i salari, eliminare ogni tipo di tutela avvicinando in questo modo il mercato del lavoro a quello sognato dai tecnocrati di Bruxelles e dai loro rappresentanti nei governi nazionali.
Sono le stesse politiche che stanno massacrando milioni di lavoratori, di giovani, di anziani in tutti i paesi dell'Europa mediterranea e la catena di comando parte direttamente dalla Trojka europea che, attraverso l'imposizione dei suoi trattati, del ricatto del debito, di politiche di massacro sociale, procede nella costruzione di un Europa all'interno della quale s'impone una divisione internazionale del lavoro, funzionale alla massimizzazione dei profitti per le banche e per un sistema industriale in crisi sistemica.
Da oggi, fino a metà dicembre, ci troveremo di fronte ad una serie di appuntamenti gravosi per le nostre misere buste paga, un vero e proprio autunno di tasse, di salasso a partire dalla TASI, dall'IMU e dalla TARI.
Occorre organizzare, quindi, una risposta forte provando, tra mille difficoltà, ad unire al di là della diversità delle condizioni sociali, lavoratori stabilizzati, precari, disoccupati, senza casa, giovani, studenti, pensionati e utenti dei servizi pubblici, in un percorso contro questo governo, contro la troika e contro le politiche economiche da loro imposte.
E' compito di ognuno di noi trasformare l'imminente autunno da una stagione di lacrime e sangue, ad una stagione di lotta e di riscatto.

mercoledì 20 agosto 2014

La carta per la conciliazione.

Sarà per questa strana estate, ma le sorprese non finiscono mai.
Nella Home/Focus dell’intranetDAG è apparsa la notizia dell’adozione in via sperimentale, da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Generale, del Personale e dei Servizi, della “Carta per la conciliazione dei tempi di vita”.
Tre paginette, di cui una di premesse, con le quali si propongono alcune linee guida tendenti a favorire “all’interno del Ministero dell’Economia e delle Finanze, la conciliazione della vita personale del dipendente con quella lavorativa”.
L’intento, quindi, è quello di raggiungere un equilibrio ottimale fra “la sfera personale ed il tempo dedicato alla famiglia”, tra “impegni lavorativi e doveri familiari”, per “una più equa distribuzione delle responsabilità legate alla genitorialità”, il tutto al fine di costruire un clima più favorevole, più sereno nell’ambito lavorativo necessario anche per “promuovere l’uguaglianza professionale tra uomini e donne ed una più equa ripartizione delle responsabilità legate alla famiglia”.
Il raggiungimento di questo obiettivo, quindi, viene strettamente legato al “cambiamento organizzativo e culturale” all’interno di ogni singolo ufficio e ad una “una nuova mentalità che valorizzi il tempo dedicato alla vita privata e che sia sensibile alle esigenze legate alle responsabilità familiari”; i soggetti indispensabili per realizzare tale rivoluzionario cambiamento, sono innanzitutto coloro che rivestono “responsabilità apicali”.
Il tutto, quindi, si dovrebbe concretamente tradurre in “regole organizzative e di gestione del personale rispettose degli impegni e della sfera familiare dei dipendenti”.
Di fronte a tali nobili intenti, siamo rimasti senza parole, senza fiato.
Solo per alcuni istanti, però.
Infatti, a nostro avviso, la questione dovrebbe essere argomentata con contenuti un po’ più seri, anziché essere liquidata con un semplice appello rivolto alla classe dirigente auspicando un loro comportamento da buon padre di famiglia; i
nsomma, al loro buon cuore.
Perché se così non fosse si corre il rischio, senza voler offendere nessuno, di cadere nella più sconcertante banalità.
Le politiche di austerity applicate, l’impoverimento di massa dei dipendenti, la perdita del potere d’acquisto, la mortificazione professionale con il diniego al diritto alla carriera, il blocco decennale dei rinnovi contrattuali (in cantiere il congelamento per altri 2 anni), l’inasprimento delle regole di condotta, la desertificazione dei diritti dei lavoratori, la sterilizzazione delle relazioni sindacali, la cancellazione degli spazi di democrazia nei luoghi di lavoro, l’allungamento sine die dell’attività lavorativa, il massacro di quel poco di welfare ormai esistente, i tagli incisivi alle politiche per le pari opportunità, al sostentamento delle famiglie, alle tutele della maternità e della paternità, il diritto alla salute e alle cure senza tagliole economiche, il diniego ad una vita dignitosa, non possono essere ignorati, non possono non contare poiché sono proprio questi gli elementi, solo per citarne alcuni, che incidono modificando fortemente la condizione personale, familiare e lavorativa dei "dipendenti" del MEF.
Lo sanno tutti, ma fanno finta di nulla.
L'inconsistenza dello stipendio, per esempio, costringe sempre più lavoratrici e lavoratori a prolungare il proprio orario di lavoro fino a sera, in una sorte di detenzione coattiva, per poter racimolare quel salario accessorio divenuto indispensabile per la sopravvivenza e sottraendo, in tale modo, tempi e spazi proprio a quella sfera personale e familiare di cui la determina del DAG auspica un maggior equilibrio.
Ormai, si trascorre più tempo in ufficio che in famiglia.
Per non volare troppo alto, senza intraprendere riflessioni e analisi sul rapporto che intercorre fra il lavoro salariato e il capitale, tra la schiavitù e la schiavitù salariata, fra l’alienazione del lavoro e le patologie depressive celate, e restare, pertanto, nel nostro “piccolo”, basterebbe soffermarci sul fatto che la locale RSU - DAG/RGS/DT di Via XX Settembre da oltre tre anni ha chiesto un tavolo di confronto con la parte pubblica per uniformare gli accordi sull’orario di lavoro attualmente vigenti; da allora, i vertici dell’amministrazione continuano a fare “orecchie da mercante”, a far finta di non sentire e di non capire.
Ordini di servizio, rilevazione e verifica dei carichi di lavoro, ottimizzazione delle risorse umane, razionalizzazione organizzativa, piante organiche, formazione, sicurezza sui luoghi di lavoro, valutazione e gestione dello stress lavoro correlato e dei rischi connessi, sembrano parole astruse, senza senso.
Altro che l’auspicio ad “una nuova mentalità”!
E che dire delle innumerevoli e paradossali “riorganizzazioni” del nostro ministero, concluse con la destrutturazione di funzioni vitali per i cittadini a favore dell'incentivazione del gioco d’azzardo, del benessere fondato sull’illusione, il tutto per far cassa?
E alle lavoratrici e ai lavoratori, alle donne e agli uomini delle dieci sedi delle RTS che chiuderanno tra poco, quali sono le linee guide proposte per conciliare i loro tempi di vita?
Insomma, ci sembra che questa “Carta per la conciliazione dei tempi di vita” non sia altro che un semplice e formale atto di generosità borghese, di nobiltà d’animo dal sapore progressista e democratico in un contesto terribile di arretramento dei diritti dei lavoratori conquistati in lunghi anni di lotta e di impegno sociale.
Il nostro auspicio, invece, è l'opposizione al furto sistematico delle nostre vite e del nostro tempo, a chi ci propone la nostra vita all’incontrario nella quale le esigenze dell’economia e la gogna del lavoro sono considerati gli unici parametri in base ai quali regolarsi; siamo convinti che tutto questo sia l’unica autentica ricchezza cui si possa seriamente aspirare.
Tempo da scegliere e da dedicare a ciò che si ama, che ci appassiona, che ci soddisfa; il nostro tempo, la nostra libertà, il nostro desiderio, rivendicare con forza il “tempo liberato”.
Un tempo liberato che non emargini, tempo di tutti, tempo di vita, tempo di integrazione, tempo festivo, tempo di intense passioni.
Occorre rovesciare un mondo fondato sulle esigenze dell’economia e sostituirlo, al più presto, con un mondo fondato sul desiderio, il desiderio irrinunciabile di riappropriazione, di godimento del proprio tempo.
Liberarsi dal lavoro, quello che garantisce ricavi ai padroni, quello che continua a ricattarci sottomettendoci alle sue sempre più raffinate tecniche di sfruttamento, di soggiogamento, di condizionamento profondo.
Queste sono le nostre semplici linee guida, questa è la nostra unica carta.

martedì 12 agosto 2014

#andateinvacanzasereni!


Nello scorso mese di luglio, è stato reso pubblico il rapporto dell’Istat sulla “povertà in Italia nel 2013”, una relazione che ha prodotto un nuovo bollettino dal fronte della lotta di classe dall’alto.
Usiamo questa espressione per descrivere meglio come il capitalismo finanziario e le politiche di austerità abbiano spostato immense ricchezze in direzione del vertice della piramide sociale, sottraendole al lavoro e alle famiglie nelle zone medio-basse.
Oggi, è utile per dare una forma ad uno dei loro principali effetti: dal 2012 al 2013, l’anno di passaggio dal governo Monti a quello Letta, dal governo dei "tecnici" a quello dei "politici", l’esplosione della povertà assoluta è aumentata colpendo 1 milione e 206 mila persone in più.
Non ci piace addentrarci nei numeri ma, in questo caso, è d'obbligo elencarli per poter comprendere seriamente la catastrofe che viviamo.
In Italia ci sono 6 milioni e 20 mila di indigenti, il 9,9% della popolazione, un residente su 10.
I poveri relativi sono più di 10 milioni.
Dall’inizio della crisi sistemica, la povertà è aumentata del 150%, in particolare a Sud; tra i minori l’emergenza è drammatica, 1 milione 434 mila persone, uno stillicidio.
È un record mai visto dal 2005, da quando esiste la rilevazione di questa stima.
Nel 2012 i poveri assoluti erano 4,8 milioni (l’8% della popolazione), raddoppiati dall’inizio della crisi nel 2008 e tutto questo è avvenuto mentre i governi hanno tagliato la spesa sociale da 2,5 miliardi a 964 milioni di euro.
Nel dettaglio, la povertà assoluta è aumentata tra le famiglie con tre (dal 6,6 all’8,3%), quattro (dall’8,3 all’11,8%) e cinque o più componenti (dal 17,2 al 22,1%).
In attesa dei dati sul 2014, sappiamo che sono peggiorate le condizioni delle coppie con figli (dal 5,9 al 7,5%) se hanno un figlio unico. Se, invece, sono due, le difficoltà aumentano dal 16,2 al 21,3%.
È notte fonda quando i figli sono tre o più, soprattutto se non hanno raggiunto la maggiore età.
La povertà si accanisce su quelle famiglie in cui la persona di riferimento ha un titolo di studio medio-basso, ad esempio la licenza media inferiore (dal 9,3 all’11,1%).
Ancora peggio se il capofamiglia ha solo la licenza elementare dal 10 al 12,1% in un anno.
In questa cornice viene colpito duramente il ceto medio povero: gli impiegati, gli operai, senza parlare di chi è disoccupato e in cerca di occupazione (dal 23,6 al 28%).
E poi c’è la guerra silenziosa che vede tra le principali vittime gli anziani: dal 4 al 6,1% se sono in coppia.
Le famiglie con almeno due anziani sono colpite dal 5,1 al 7,4% e, tra gli ultrasessantacinquenni i poveri assoluti nel 2013 erano 888 mila, 728 mila nel 2012.
Il Sud è la parte del paese più tartassata.
Ci sono 725 mila poveri in più, complessivamente 3 milioni 72 mila persone in stato di grave bisogno.
A differenza dell’andamento nazionale, dove la povertà relativa pari a 972,52 euro per una famiglia di due componenti, è rimasta nel frattempo stabile (dal 12,7 al 12,6%, con una perdita “solo” di 18 euro), nel Mezzogiorno è aumentata ancora dal 21,4 al 23,5%.
In Italia ci sono 10 milioni e 48 mila persone che si trovano in questa condizione, pari al 16,6% della popolazione.
Il dato più duro, e che non può essere taciuto, riguarda la povertà assoluta dei minori.
Gli under 18 poverissimi sono aumentati nell’anno peggiore della crisi: nel 2012 erano 1 milione 58 mila (10,3% del totale). Nel 2013 erano 1 milione 434 mila persone (il 13,8%).
Nel 2013, 428.587 bambini con meno di cinque anni hanno avuto bisogno di aiuto per bere latte o mangiare.
A Sud sono 149 mila, il 35% del totale, a Nord 129.420, il 30%. Il 40% di questi bambini vivono in Campania e Sicilia.
In Italia, quindi, la crisi economica non si arresta, siamo in piena “recessione”, iniziata non dopo un periodo di ripresa ma, bensì, dopo una lunga stagnazione; l'indice nazionale dei prezzi al consumo pone dieci, tra le più grandi città del paese, in piena deflazione.
La situazione peggiorerà perché i padroni non fanno investimenti, gli 80 euro sono stati un bluff elettorale e l’export diminuirà, visto che anche i paesi capitalisti “emergenti” rallentano e non possono fungere da assorbitori di merci e ammortizzatori della crisi come prima.
Le precedenti ondate recessive hanno causato la perdita di circa 9 punti di PIL e di un quarto del prodotto industriale, reso drammatico il problema della disoccupazione (specie quella giovanile) e della povertà.
Con la nuova recessione le conseguenze saranno ancora più gravi.
Dopo sette anni di crisi la borghesia non ha più grandi margini di manovra; questo significa che inasprirà la sua offensiva e con ciò la lotta di classe, la famosa lotta di classe dall'alto.
Recessione fa rima con aggressione per il capitale monopolistico finanziario e i suoi governi, come quello neoliberista attuale.
Il “rottamatore” ha esaurito la luna di miele e deve dimostrare ai poteri forti che lo hanno insediato senza voto elettorale, che è capace di affrontare la situazione con una maggiore aggressività antioperaia e antipopolare, a partire dallo Statuto dei Lavoratori.
Infatti, sotto l'abito di buon taglio del Presidente della BCE, abbiamo visto spuntare nei giorni scorsi le stellette.
La richiesta di delegare le riforme strutturali, cioè la distruzione del welfare e dei diritti dei lavoratori, ad organismi europei non eletti da nessuno ha un solo significato: la proposta ai governi di realizzare un colpo di stato che abolisca la democrazia e la sovranità dei popoli.
Sempre di più è evidente di come il capitalismo non sia in grado di uscire dalla crisi che ha determinato e di come la ricetta che ci propongono sia quella di distruggere tutto quanto di buono sia stato costruito grazie alle lotte dei lavoratori.
Per questo, l'attuale governo deve andare avanti concretamente e a ritmi più rapidi nel suo programma di controriforme costituzionali e politiche, di austerità e privatizzazioni, di flessibilità e precarietà, di maggiore presenza militare all’estero e altri tagli alla spesa sociale.
Il capitale finanziario e il suo governo vanno all’attacco e lo scenario che si intravvede è quello di una “catastrofe sociale e politica”.
Lo spaventoso aumento della povertà materiale e delle diseguaglianze nel nostro paese, insieme alla perdita sostanziale di molti diritti acquisiti, evidenziano l’accanimento delle politiche d’austerità in atto, le scellerate priorità politiche rendendo quanto mai urgente e necessario l’impegno e la partecipazione di tutti noi.
Le soluzioni per garantire “una vita libera e dignitosa” sono radicali e sono completamente opposte a quelle che ci propinano: l'Italia deve disobbedire unilateralmente ai trattati europei, non rispettare il 3% del deficit, non applicare il Fiscal Compact, non assumere nuovi impegni di stangate antipopolari che loro chiamano riforme, non pagare il debito, ripubblicizzare i servizi essenziali, sospendere gli sfratti esecutivi, destinare il patrimonio immobiliare sfitto e quello requisito alla criminalità per usi sociali e abitativi, creare il “reddito minimo di cittadinanza”, rifiutarsi di cedere ulteriore potere e sovranità ad istituzioni che fanno unicamente gli interessi delle banche e delle multinazionali, requisire la ricchezza prodotta in possesso di poche mani distribuendola ai tanti che hanno poco o nulla.
Questa, è l'unica strada da percorrere.

venerdì 4 luglio 2014

Auguri di buon lavoro a tutte/i.

Lo scorso 1° luglio, il Sig. Ministro ha rivolto un augurio speciale di buon lavoro a tutti i lavoratori del MEF che direttamente o indirettamente sono coinvolti con il Semestre di Presidenza italiana del Consiglio dell'Unione Europea.
Un augurio particolare, quindi, per coloro che in questi prossimi sei mesi, con proposte concrete, contribuiranno a mettere al centro dell'agenda politica la prospettiva di crescita economica indispensabile per creare nuova occupazione.

Un pensiero gentile, pertanto, che denota una particolare sensibilità e passione, certamente molto gradito da parte nostra.
Ma di fronte a tanta passione e coinvolgimento, per non essere scortesi, non possiamo anche noi che ricambiare gli auguri di buon lavoro, senza cadere né nella sufficienza né nella retorica.
Infatti, il 1° luglio è stato il primo giorno del Semestre di Presidenza italiana del Consiglio dell’Unione Europea; il Governo, di cui fa parte il Sig. Ministro, doveva inaugurarlo l’11 luglio a Torino con un vertice sulla disoccupazione giovanile.
Invece, ha preferito rinviare tutto nel tentativo di eludere critiche e contestazioni, lasciando immediatamente senza risposte un dramma sociale che è conseguenza diretta delle politiche di austerità e della precarizzazione del mondo del lavoro.
Quello che rimane sul tavolo, è un goffo tentativo di giustificare la continuità delle larghe intese anche a livello europeo, con presunte deroghe al rigore dei conti pubblici.
Le autorità europee, infatti, hanno già ribadito l'inderogabilità al divieto di oltrepassare il rapporto tra deficit pubblico e prodotto interno lordo pari al 3%, confermando le regole ancor più stringenti del patto di Stabilità e del Fiscal compact.
E' stata già respinta la richiesta italiana di spostare il pareggio di bilancio dal 2015 al 2016, così come respinta la richiesta di potere utilizzare i fondi europei senza dover contribuire con stanziamenti propri; rinviata alla nuova Commissione, poi, la facoltà di decidere su eccezioni nazionali nella tempistica.
Il tutto, viene condito da belle frasi sulla già esistente flessibilità in documenti di valore meramente consultivo e da generici inviti ad aumentare gli investimenti per creare più posti di lavoro, purché partano o si implementino "riforme strutturali" che agevolino la crescita e migliorino la sostenibilità dei bilanci.
Insomma, un ulteriore smantellamento della protezione dei lavoratori e del welfare.
Tante parole, troppe.
La prima uscita del Presidente del Consiglio a Bruxelles, come premier del Paese presidente di turno dell’Unione, è stata tutto un programma; slogan, richiami a Telemaco, parole d’ordine generiche come coraggio e orgoglio. 
La grande stagione delle "riforme strutturali" e della ricetta "rigore+crescita" è già macchiata dalle previsioni degli indicatori macroeconomici e dalle misure che saranno necessarie per rimanere dentro la gabbia dell’austerity, come le privatizzazioni di numerosi asset pubblici che fanno gola a investitori italiani e non.
In parallelo, continua a marciare la trattativa occulta per la ratifica del TTIP, il trattato di libero scambio USA-UE: il 14 luglio, infatti, potrebbe essere uno snodo decisivo di una trattativa che mette sul piatto la svendita del patrimonio pubblico e dei beni comuni, potenzialmente anche di scuole, università e altri luoghi di formazione e cultura, per abbattere tutte le "barriere al commercio", ovvero i diritti di cittadinanza e la non profittabilità delle risorse e dei servizi fondamentali per vivere una vita degna (l’11 ottobre, giorno nel quale è prevista una giornata di mobilitazione mondiale "Stop TTIP", diviene, perciò, un appuntamento fondamentale nell’orizzonte delle mobilitazioni sociali).
C’è chi, tuttavia, non ha rinunciato a inaugurare il proprio semestre, quello sociale, delle mobilitazioni dal basso per un’altra idea di Europa, di democrazia, di saperi, di lavoro e di welfare.
Ed è questo il nostro autentico augurio che rivolgiamo ai lavoratori; quello di impegnarsi per la costruzione del semestre di mobilitazione sociale, un controsemestre popolare e di lotta che non dovrà conoscere soste.
Una forte mobilitazione per esigere la fine delle politiche di austerità e competitività, per abolire il Fiscal compact, il pareggio di bilancio e il Trattato transatlantico che ci portano diritti alla rovina; ribaltare le misure antioperaie e reazionarie, il blocco immediato dei licenziamenti per i profitti, lavoro per tutti, sicuro, stabile e a tempo pieno, l'aumento dei salari e la riduzione dell’orario di lavoro, la cancellazione della legge Fornero.
Il semestre europeo dovrà essere utilizzato per chiarire e denunciare il ruolo dell’UE, istituzione imperialista artefice e garante delle politiche di austerità dirette a scaricare tutto il peso della crisi sulle spalle dei lavoratori; per sviluppare la resistenza alle politiche neoliberiste e reazionarie, per esprimere la solidarietà con le lotte dei lavoratori e dei popoli che subiscono la stessa offensiva capitalista.
Per i gruppi dominanti del capitalismo, il semestre di presidenza sarà l'occasione per avanzare a tamburo battente nelle controriforme del lavoro, politiche e costituzionali.
Così come, per proseguire nella eliminazione delle libertà e dei diritti dei lavoratori, quali il diritto di sciopero e di espressione delle opinioni, attaccati in questi giorni dai padroni.
Da parte sua, l’UE spinge l'attuale compagine governativa per la riduzione del debito a costo di un ulteriore saccheggio sociale.
Altro che "allentamento dei vincoli di bilancio", l’aggressività, l’intensificazione dello sfruttamento nei luoghi di lavoro, la prosecuzione degli attacchi ai ceti popolari meno abbienti, il malaffare dell’Expo, del Mose e della TAV, rendono, pertanto, impellente un ampio fronte di resistenza e di mobilitazione.
Se precarietà e crisi sono il vostro presente, reddito e conflitto saranno il nostro futuro.
Non contate, quindi, sulla nostra fiducia, sul nostro impegno.
Tanti auguri di buon lavoro a tutte/i.

giovedì 3 luglio 2014

Circolare 20/2014 – assegno per il nucleo familiare – rivalutazione dei livelli di reddito dal 1° luglio 2014

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha pubblicato la circolare n. 20 del 19 giugno 2014 pdf_icon, con la quale comunica che, in base all’articolo 2 del Decreto Legge 13 marzo 1988, n.69 (convertito, con modificazioni, nella Legge n.153/1988), vengono rivalutati i livelli di reddito familiare e le relative maggiorazioni in misura pari alla variazione percentuale dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati intervenuta tra l’anno di riferimento dei redditi per la corresponsione dell’assegno per il nucleo familiare e l’anno immediatamente precedente.
In relazione a ciò, l’Inps ha pubblicato, con circolare n.76 dell’11 giugno 2014 pdf_icon, le tabelle aggiornate con i nuovi limiti di reddito familiare Excel_iconda considerare, sulla base del reddito conseguito nel 2013, ai fini della corresponsione dell’assegno per il nucleo familiare per il periodo 1° luglio 2014 – 30 giugno 2015.
Nella circolare si ribadisce che, con l’istituzione dell’IMU nell’anno 2012, i redditi dominicali dei terreni non affittati e quelli dei fabbricati non locati non sono più ricompresi tra i redditi soggetti ad IRPEF ma, mantenendo la loro natura reddituale, vanno comunque considerati nel reddito familiare complessivo, desumendo il relativo importo dai righi 147 e 148 del mod.730-3 e dal rigo RN50, colonne 1 e 2, del mod. Unico.
Allegata alla circolare è presente la domanda per l’assegno per il nucleo familiare Excel_icon.

lunedì 2 giugno 2014

Benvenuti ai Mondiali 2014!

La Coppa del Mondo l’avevamo lasciata quattro anni fa a Johannesburg, quando la nazionale olandese si era dovuta arrendere, nei tempi supplementari, al gol del centrocampista del Barcellona Andrès Iniesta, regalando alla Spagna il suo primo mondiale.
Oltre ad essere stato il primo mondiale vinto dalla Spagna, quell’edizione è stata anche la prima giocata in Africa, in particolare in Sud Africa, uno dei paesi appartenenti ai Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), ovvero ai nuovi stati emergenti.
Il Sud Africa, nonostante i mondiali del 2010, è ancor oggi teatro di una grande disuguaglianza sociale e razziale, oltre ad essere scosso da ripetuti scioperi dei minatori, sempre più repressi nel sangue dalla polizia.
Dopo il Sud Africa, un altro paese Brics si appresta a ricevere il mondiale.
Il Brasile che ospiterà la Coppa del Mondo, però, non è certamente il Sud Africa né dal punto di vista economico, né da quello del livello di mobilitazione sociale.
Il gigante carioca, infatti, è effettivamente una delle più grandi economie al mondo, che da 10 anni cresce a ritmi molto elevati ed è ormai diventata una potenza regionale. Un’economia che, però, negli ultimi due anni sta accusando battute d’arresto, sia perché c’è un forte attacco speculativo verso le monete dei Brics, sia per la concorrenza messa in campo da altri paesi.
Inoltre, le famose politiche assistenziali del governo Lula, proseguite da Dilma Russef, hanno avuto pochi effetti redistributivi limitati ai primi anni e, ormai, sono di fatto saturi; per essere realmente efficaci e redistributivi, avrebbero bisogno di intaccare quegli interessi fondamentali dell’alta borghesia brasiliana, cosa, questa, che però non succede.
Questo è il contesto economico in cui si inserirà il mondiale 2014, una rassegna che secondo il governo avrebbe dovuto far entrare ufficialmente il Brasile nei "grandi" dell’economia mondiale.
Al momento, quello che si sta vedendo è un aumento vertiginoso della speculazione edilizia e della costruzione di grandi opere inutili, con milioni di dollari investiti dal Governo brasiliano.
Da oltre un anno, inoltre, i prezzi dei servizi pubblici, ma anche degli alimenti di base, sono in costante aumento a fronte di salari costanti e mediamente bassi. Un fenomeno che è inevitabilmente legato all’avvicinarsi dei mondiali.
Proprio l’aumento dei biglietti del trasporto pubblico, uno dei servizi tra i peggiori al mondo, è stato il fattore scatenante delle prime proteste contro i campionati del mondo, a cui sono seguite le manifestazioni degli insegnanti, non direttamente legate alla speculazione connessa alla rassegna calcistica, ma che hanno solidarizzato immediatamente con gli altri manifestanti.
La protesta, inoltre, si è estesa ad altre tematiche più generali in cui la rabbia per i mostruosi investimenti pubblici effettuati per costruire infrastrutture inutili, si unisce alla richiesta di spostare questi fondi per migliorare i servizi essenziali come l’istruzione, gli ospedali o il trasporto pubblico.
Fino agli ultimi mesi, le proteste erano rimaste interne alla classe media, che vedeva depauperare i propri guadagni a causa dell’inflazione, dei salari bloccati e del peggioramento dei servizi.
Il conto alla rovescia verso il 14 Giugno ha, però, fatto irrompere sulla scena altri attori: i favelados (gli abitanti delle favelas).
Più di 250.000 persone, infatti, sono state violentemente sgomberate dalle loro case, o meglio baracche, per far posto a un nuovo stadio o ad un nuovo centro commerciale, senza fornirgli alcuna soluzione alternativa.
Insomma, finti piani di riqualificazione che nascondevano speculazioni edilizie e progetti di gentrificazione coatta.
Le proteste, dunque, hanno iniziato a coinvolgere il Movimento dos Trabalhadores Sem-Teto (Movimento dei Lavoratori Senza Tetto), rafforzato da migliaia di abitanti delle favelas disposti a tutto pur di riprendersi le proprie abitazioni ed infine, gli indios che si battono per la demarcazione delle loro terre e contro i ripetuti attacchi portati dalle multinazionali dell'agro-alimentare di impossessarsi delle loro territori più ricchi.
Questi elementi, quindi, sono una novità nel panorama politico brasiliano perché, per esempio, i favelados raramente si sono sommati alle proteste della classe media, rimanendo sempre ai margini delle mobilitazioni sociali proprio a causa di questo loro status di ultimi tra gli ultimi, di disoccupati perenni, non inquadrabili in nessuna categoria.
Una caratteristica tipica dei settori più emarginati dell’America Latina che, però, una volta scesi in strada, ha una potenzialità conflittuale devastante considerando anche il fatto che nella sola Rio de Janeiro gli abitanti delle favelas sono 2 milioni su 12 milioni di cittadini di Rio.
Proprio in virtù di tutto ciò, la repressione è stata e continua ad essere tremenda; la polizia militare brasiliana non ha avuto nessun problema ad usare le armi da fuoco per reprimere queste manifestazioni, utilizzando dei metodi repressivi appresi direttamente dalle agenzie statunitensi di contractor, tra i quali la tortura e l'assassinio.
Non è certamente la prima volta che i mondiali di calcio vengono utilizzati per fini economici o politici; tra i casi più eclatanti ricordiamo quelli del 1962 in Cile e del 1978 in Argentina, rassegne ad uso e consumo delle dittature locali dell’epoca ma, anche, la stessa Italia ’90 in cui furono evidenti i legami con tutto il sistema di tangentopoli
Quindi, il 12 giugno si alzerà il sipario sul mondiale di calcio in Brasile ed è per questo che desideriamo fare in modo che la realtà patita dal popolo brasiliano a causa della realizzazione di questo evento "sportivo", possa essere conosciuta da più persone possibili, cosicché chi assisterà al torneo sia almeno consapevole dei crimini che sono stati compiuti e che si stanno reiterando ancora.
Ci rendiamo conto che auspicare la sua sospensione o il suo boicottaggio sia un discorso utopistico; ma con l'aiuto di chi condivide il nostro sdegno nei confronti degli atti d'oppressione subiti dalla popolazione brasiliana, possiamo impegnarci affinché questo possa essere il mondiale meno seguito della storia.
30.000.000.000 di dollari sono stati spesi per la sua realizzazione, in un paese dove vige la carenza di scuole (il 10% dei brasiliani sono analfabeti), ospedali e l'impossibilità economica per molte persone di potersi permettere cure mediche; 13.000.000 di brasiliani soffrono la fame; più di 250.000 persone sono state espropriate dalle proprie abitazioni, perché intralciavano i lavori per le strutture necessarie allo svolgimento del mondiale o perché residenti in favelas ritenute di brutto gusto per l'immagine della manifestazione "sportiva".
Anche dalle nostre parti, purtroppo, stiamo imparando cosa significhi essere privati di un tetto sotto il quale vivere per sfratti e sgomberi o perdere la propria abitazione a causa di grandi, inutili opere.
Quindi, chiediamo a chi è solidale verso queste tematiche, ai lavoratori del nostro ministero, di unirsi in questa campagna, una forma di disobbedienza civile che possa sensibilizzare altre persone e mandare un messaggio forte e chiaro.


“Il calcio per me è come camminare: da solo, svincolato da un contesto sociale, non è nulla.
Quando vai a piedi, non fai niente di speciale: se però a piedi vai sotto al Parlamento a far valere le tue idee, cambia tutto.
Così il calcio: se diventa un veicolo per educare la gente, allora è un mezzo formidabile”
Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, detto Sócrates, capitano della Nazionale brasiliana ai mondiali del 1982 e del 1986.
(Belém, 19 febbraio 1954 – San Paolo, 4 dicembre 2011).