Ministero dell'Economia e delle Finanze

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mercoledì 13 febbraio 2013

Lei, quante volte viene?


Lei viene? Ma una volta sola? Ma quante volte viene? Con che distanza temporale? E' un'offerta conveniente, si vuole girare signorina. Ehh, sì, vale la pena".
Ecco alcune delle frasi che il Cavaliere ha pronunciato, sabato scorso, ad una dipendente dell'azienda Gruppo Green Power sul palco di Mirano, in provincia di Venezia, dove si stava svolgendo un incontro.
Doppi sensi continui, apprezzamenti sessisti sui quali l'ex Presidente del Consiglio provava visibilmente un certo piacere, visto l'imbarazzo della giovane donna.
Lui, infatti, non era per nulla in imbarazzo, anzi.
E non era in imbarazzo neppure la platea, composta da dirigenza e da colleghi della dipendente.
I presenti ridacchiavano, come se niente fosse e applaudivano divertirti alla performance, alla gag.
La platea rideva, compiaciuta.
Quella platea, purtroppo, rispecchia molti di noi, una Italietta che fa battute da caserma, che si dà di gomito.
È il nostro luogo di lavoro, la nostra famiglia, il nostro bar, il nostro spogliatoio quando andiamo a giocare a calcetto, la nostra palestra, le nostre strade.
È l'intesa degli sguardi tra uomini, è la paura di sentirsi essere additati come i meno virili se non si partecipa al gioco.
E il Cavaliere la conosce benissimo, quella platea.
Se non fosse così, le frasi del Cavaliere non farebbero presa.
Se non fosse così, lui si sentirebbe in imbarazzo a chiedere pubblicamente a una donna quante volte viene. Avrebbe vergogna a chiederle di girarsi un'altra volta per ammirare il suo "sedere".
Lo ha fatto perché era certo che quella platea avrebbe riso.
Perché in quella platea c'è una parte di noi, e sono purtroppo tanti.
Sono quelli che ridono di fronte a quella pubblica mortificazione, dove si ferisce, si umilia per far ridere e per alleggerire discorsi, per divertire il pubblico.
"E questo impianto cosa mi riscalda? Anche la camera da letto?" e giù con gli sghignazzi dei presenti e dei vertici della società.

E sì, il siparietto che ha offerto il Cavaliere è vomitevole, uno dei tanti.
A noi non fa ridere.
Anzi, ci fa schifo perché la violenza sulle donne incomincia proprio dal linguaggio, dall'aggressione continua alla sua immagine concimata da una cultura televisiva sessista.
Eppure, i servi sciocchi del padrone in sala ridevano alle "battute argute" del Cavaliere. Ed è per questo che è ancora più nauseabondo.
Anzi, più guardiamo e riguardiamo quel filmato e più ci imbarazziamo anche per lui.
Ma è qui l’errore, perche lui non era in imbarazzo.
Né lui, né la platea.
E lui ci conosce fin troppo bene.
Ha contribuito a rendere molti di noi così.

domenica 10 febbraio 2013

Suicidio di Stato.


Molti lavoratori rimarranno delusi, forse anche infastiditi.
Forse, in questo momento, alcuni lo avranno già spostato nel cestino.
Infatti, non parleremo, se pur fondamentali per la nostra sopravvivenza, di "cartolarizzazione" o dell'elemosina del "fondo di sede"; e neppure ci mettiamo a "slinguettare" gli alti papaveri della Ragioneria Generale dello Stato scrivendo imbecillità e stupidaggini sul tentativo di "limitare i poteri e l'autonomia" dell'organo centrale di coordinamento "quale garante della credibilità dei conti pubblici italiani in Europa e nei consensi internazionali".
La tastiera del nostro p.c. racconta, invece, di un altro suicidio di Stato, quella di Giuseppe Burgarella.
Giuseppe era un compagno, un operaio edile siciliano disoccupato da tempo, il suo ultimo contratto di lavoro risaliva al 2000.
Giuseppe si è tolto la vita impiccandosi ad una trave, nel giardino di casa sua; l'ha fatto, però, in un modo ancor più drammatico, che induce ancor di più a riflettere sulle cause del suo gesto.
Prima di togliersi la vita, Giuseppe ha scritto con cura certosina la lista, interminabile, di tutti i "morti per disoccupazione", i suicidi di Stato degli ultimi due anni.
Se li era appuntati uno ad uno, copiandoli dalle cronache dei giornali e, in fondo all'elenco, aveva scritto il suo nome: Giuseppe Burgarella.
Poi, il biglietto lo ha inserito nella Costituzione della Repubblica Italiana dopo aver scritto per ultimo, citando l'articolo 1, l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, alcune sue considerazioni: "allora perché lo Stato non mi aiuta a trovare lavoro? Perché non mi toglie da questa condizione di disoccupazione? Perché non mi restituisce la dignità? Allora se non lo fa lo Stato lo devo fare io".
Il biglietto lo conclude con "se non lavoro non ho dignità. Adesso mi tolgo dallo stato di disoccupazione"; e così, Giuseppe si è lasciato andare con la corda al collo attaccata al gazebo del giardino, con la Costituzione al suo fianco.
Una corda intorno al collo, in nome dell'articolo 1 della Costituzione.
Il suo gesto non è stata una resa, ma un atto politico perché
Giuseppe, come noi, credeva nel diritto che ogni cittadino ha di avere un lavoro, e che a quel diritto nessuno poteva rinunciare né qualcuno poteva, in qualsiasi modo, negarlo.
Il lavoro come unica condizione per avere piena dignità sociale.
Il dolore che proviamo fa il paio con la nostra rabbia; non possiamo più assistere inermi a questi suicidi di Stato, uno Stato che fa pagare, con la vita, le drammatiche conseguenze di una crisi da loro voluta e scaricata, con provvedimenti infami, sulla povera gente.
Di questo dobbiamo parlare, perché questa è la realtà di questo paese fatta di carne e di sangue, di dolore e di disperazione.
Quando l'ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa un dovere.