Ministero dell'Economia e delle Finanze

Ministero dell'Economia e delle Finanze

lunedì 30 dicembre 2013

Buon 2014 a tutte/i.

Mentre il mainstream della borghesia cerca di convincerci che la ripresa economica è iniziata, la realtà che viviamo è ben diversa; la recessione continua e le condizioni di vita e di lavoro di milioni di lavoratori e di larghe fasce popolari si fanno sempre più dure.
La chiusura delle fabbriche e i licenziamenti continuano e, per chi lavora, la situazione è critica fra riduzioni salariali, aumento dei carichi, dei ritmi, degli orari di lavoro e dei ricatti padronali.
Il tasso di disoccupazione ufficiale ha sfondato il 12,5% e crescerà ancora nel prossimo anno; quello giovanile è al 40%, con cifre maggiori al sud e fra le donne.
9,2 milioni di persone oggi sono "ufficialmente" povere, tra cui un milione di bambini in povertà assoluta.
La miseria si abbatte su nuovi strati di lavoratori che non riescono più a curarsi, a pagare le bollette, a scaldare la casa.
All’altro polo della società, un 10% di borghesi possiede oltre il 50% della ricchezza nazionale, vivendo nel lusso e nello spreco, beneficiando della crisi di cui sono responsabili.
Alla profonda e prolungata crisi economica del capitalismo, si accompagna la decomposizione del sistema politico borghese e dei suoi vecchi e corrotti partiti che perdono continuamente consensi.
Nonostante lo sfaldamento delle "larghe intese", il governo "Alfetta" continua nella sua nefasta azione.
La legge di stabilità, le privatizzazioni, le sovvenzioni a grandi imprese, alle banche, il continuo taglio alle spese sociali, l’aumento delle tasse per i lavoratori e il blocco contrattuale comportano costi sociali tremendi.
Attraverso queste misure prosegue, quindi, la politica di austerità e di guerra, di saccheggio sociale imposta dall’oligarchia finanziaria e dalla troika UE-BCE-FMI.
Insieme alle misure antipopolari va avanti il piano di trasformazioni reazionarie a livello politico e istituzionale.
L’obiettivo che si prefigura è la modifica dell’art. 138 della Costituzione; in questo modo si punta alla creazione di una Repubblica presidenziale di tipo autoritario, antidemocratica, che estenderà la reazione politica a macchia d’olio.
I fatti dimostrano che nel contesto dell’aggravamento della crisi generale del capitalismo la borghesia, per salvaguardare i suoi interessi e il suo dominio di classe, getta nel fango le libertà conquistate dai nostri padri, diventa sempre più aggressiva e non esita a disfarsi dello stesso ordinamento costituzionale divenuto incompatibile con le fameliche esigenze del capitale finanziario.
In questo scenario, numerose sono le forze servili al capitalismo che svolgono un ruolo di freno, affossando le istanze di cambiamento che provengono da interi settori popolari, criminalizzando la protesta sociale.
Basta pensare alla proposta sul mondo del lavoro presentata dalla nuova segreteria renziana, il Job Act: cancellazione dell'articolo 18 ai neo assunti per i primi tre anni, durante i quali gli imprenditori sarebbero privati dal pagamento dei contributi che andrebbe a carico dello stato; superamento dei numerosi contratti di lavoro per arrivare alla realizzazione di un contratto unico; così come sarebbe unico il sussidio di disoccupazione che andrebbe a sostituirsi all'attuale cassa integrazione, vincolato a un corso obbligatorio di formazione.
Sarà il nuovo che avanza o il fascino di nuove proposte ma quello che salta agli occhi sono solo vecchie proposte condite in una salsa nuova, tra cui il classico tentativo di eliminare l'articolo 18 o, per lo meno, mettere a segno un ulteriore passo in avanti verso la sua cancellazione.Questo è lo scenario che si intravede per il futuro del mondo del lavoro; una prospettiva che, ancora una volta, va a sposarsi con gli interessi dei padroni.
Il loro compito, quindi, è quello di isolare i settori più combattivi dei lavoratori sostenendo, recentemente, anche l'inutilità dello sciopero generale, nonostante negli ultimi mesi numerosi sono stati gli strati della classe produttiva che hanno ripreso il cammino di lotta contro le conseguenze della crisi economica, l’offensiva capitalista, le manovre reazionarie.
Si è aperta, infatti, una nuova fase di mobilitazione ascendente, in cui si moltiplicano le proteste e le mobilitazioni di massa su diversi terreni: lavoro, salario, casa, ambiente, lotta alle privatizzazioni, tasse.
Dagli operai ai tranvieri, dagli studenti alle donne, dai senza casa ai migrati, da Genova a Napoli, dalla Val Susa alla Sicilia la resistenza e le mobilitazioni si sviluppano riempiendo le strade. La classe lavoratrice, specie quella delle fabbriche investite dalle dismissioni e dalle ristrutturazioni, esige soluzioni dignitose per il lavoro, il salario e le pensioni a spese dei capitalisti e dei ricchi.
Altri settori sociali, vittime della crisi, impoveriti e declassati, si sono messi in movimento; all’interno di queste mobilitazioni osserviamo un più netto rifiuto delle logiche istituzionali e parlamentari, una maggiore radicalizzazione delle forme di lotta.

L'anno nuovo che verrà dovrà dare, quindi, maggiore impulso ad una partecipazione attiva dal basso; dovrà rafforzare il protagonismo sociale, la mobilitazione e l’autorganizzazione dei lavoratori indispensabili per rilanciare una combattiva opposizione di classe.
E’ necessaria una radicale svolta di classe, nelle forme di lotta e di organizzazione, nel programma e nelle parole d’ordine perché senza questo il malcontento rischia di essere intercettato dalle forze reazionarie che agiscono come strumenti del grande capitale per recuperare la collera montante contro l’UE e i governi dell’austerità, dividendo la classe lavoratrice e le masse popolari.
Non c’è altro tempo da perdere con la passività e l'attendismo.
I lavoratori non possono e non devono rassegnarsi; è ora di rompere gli indugi.

Buon 2014 di lotta a tutte/i.

lunedì 23 dicembre 2013

Bocche cucite.



Hanno mandato alcuni avanzi di televisione a fare un miserevole, inutile e costoso show nei campi profughi in giro per l’Africa ma, alla fine, bastava fare quattro passi in periferia per trovare i lager nascosti dietro casa.
Dalle disinfestazioni contro la scabbia a Lampedusa, alle condizioni inumane del CIE di Ponte Galeria di Roma.
Ma una nuova forma di protesta, forse più violenta di una rivolta vera e propria è in atto.
E’ quanto sta avvenendo, infatti, da sabato 21 dicembre al CIE di Ponte Galeria.
Hanno iniziato in 4, poi in 8 e da ieri sono 15 i migranti che si sono cuciti le bocche.
Un gesto estremo, per denunciare quanto sia insopportabile il trattenimento nei centri di identificazione ed espulsione.
Quello che chiedono è la tutela della dignità umana, tempi di trattenimento o di espulsione più rapidi, assistenza legale e sanitaria.
Diritti che sono sistematicamente violati.
Questi centri sono il buco nero della democrazia e della politica italiana, intrisa di noncuranza, d’avversione xenofoba, di disorganizzazione assoluta, d’ipocrisia.
Facciamo finta di apprendere ciò che si sa benissimo, come se ci trovassimo di fronte alla scoperta di realtà sconcertanti.
Insomma un bignami dei vizi italiani.
Probabilmente molti di noi, educati a pensare che l’immigrazione sia il guaio di questo Paese, importa poco di ciò che accade nei CIE; ma, forse, dovrebbe importare il fatto che, grazie alle politiche economiche e alle attenzioni riservate ai lavoratori, stiamo incominciando a ricevere lo stesso trattamento, stiamo diventando anche noi immigrati nel nostro paese.
Questo è il forte grido che ci giunge dai nostri fratelli migranti; non possiamo più aspettare.
I CIE devono essere chiusi.

Questo è il nostro più sincero augurio.

domenica 8 dicembre 2013

Nadiba.

E’ morto, nella serata di giovedì 5 dicembre, Nelson Mandela, uno dei protagonisti della lotta di liberazione contro la segregazione razziale e, più in generale, contro il dominio coloniale delle classi dominanti, legati ai bianchi afrikaner, in Sudafrica.
In queste ultime ore, i potenti e i media si affannano nel ricordare il Mandela Nobel per la Pace; noi, invece, vogliamo ricordare il Nadiba militante rivoluzionario.
Infatti, negli ultimi anni si è cercato di disinnescare la figura rivoluzionaria di Nelson Mandela facendone una icona del pacifismo e della convivenza, usandolo come testimonial per campagne umanitarie ma depotenziando completamente il piano politico e rivoluzionario della sua vita e della storia.
Basta pensare che l'African National Congress, che ha guidato la lotta contro l'apartheid in Sudafrica, è stato rimosso dall'elenco delle organizzazioni considerate terroristiche dal governo degli Stati Uniti solo nel 2008.
La Lady di ferro inglese, Margaret Thatcher, considerava Mandela un vero e proprio terrorista.Certo, siamo consapevoli che, nonostante i passi avanti e i diritti ottenuti dalla popolazione nera, in Sudafrica oggi le disuguaglianze sociali restano un nodo irrisolto: il reddito pro capite dei neri sudafricani è ancora sei volte inferiore rispetto a quello dei bianchi, mentre dilaga la corruzione.
Non ultimo, nei mesi scorsi il paese è stato scosso dalla protesta dei minatori che chiedevano migliori condizioni lavorative, salariali e di vita in generale; una protesta che più volte è finita nel sangue con l’intervento repressivo della polizia.
La vicenda storica e politica di Mandela è, quindi, ben più complessa rispetto alla narrazione mainstream.
Qualche data e qualche dato: nel 1942 Mandela entra nell’African National Congress e fonda l’associazione giovanile Youth League.
Nel 1948, insieme al compagno e avvocato Oliver Tambo, costituiscono un ufficio legale per l’assistenza gratuita delle persone prive di qualsiasi tutela giuridica.
Nel 1961 divenne il comandante dell’ala armata Umkhonto we Sizwe dell’ANC, della quale fu cofondatore. Coordinò la campagna di sabotaggio contro l’esercito e gli obiettivi del governo ed elaborò piani per una possibile guerriglia per porre fine all’apartheid; raccolse anche fondi dall’estero per il MK e dispose campi militari.
A sostenere la battaglia, anche armata, contro il segregazionismo istituzionale bianco ci furono diverse realtà dell'internazionalismo antimperialista dell’epoca: combattenti cubani, angolani dell’MPLA, le milizie armate dell’African National Congress e dei namibiani della Swapo, per citarne solo alcuni.
Nell’agosto 1962 fu arrestato dalla polizia sudafricana e imprigionato per 5 anni con l’accusa di viaggi illegali all’estero e incitamento allo sciopero.
Mandela fu accusato di sabotaggio e di altri crimini equivalenti al tradimento e fu condannato all’ergastolo il 12 giugno 1964.
L’imputazione includeva il coinvolgimento nell’organizzazione di azione armata, in particolare di sabotaggio (del cui reato Mandela si dichiarò colpevole) e la cospirazione per aver cercato di aiutare gli altri Paesi a invadere il Sudafrica (reato del quale Mandela si dichiarò invece non colpevole).
Rifiutando un’offerta di libertà condizionata, in cambio di una rinuncia alla lotta armata (febbraio 1985), Mandela rimase in prigione fino al febbraio del 1990; uscì dal carcere di Robben Island, dopo circa 28 anni di detenzione.
Nel 1994 divenne il primo presidente nero del Sudafrica.

La storia della sua vita, quindi, non è quella che ci raccontano banalmente.
Madiba è una vicenda molto più ricca, complessa e radicale della melensa immagine di "pace e amore" con cui in questi giorni viene riempito lo spazio comunicativo.
Nelson Mandela fu un guerrigliero, un rivoluzionario.


Solo chi è disposto a sognare un mondo migliore lo cambia davvero e, un vincitore, è semplicemente un sognatore che non si è mai arreso.

mercoledì 4 dicembre 2013

made in Italy.

Abbiamo aspettato alcuni giorni prima di prendere la parola sulla strage di Prato.
Volevamo cogliere in flagrante l’atteggiamento prevalente sull’ennesima mattanza di operai, stavolta di nazionalità cinese, simile purtroppo ad altre stragi annunciate, come la Tyssenkrupp, la Mineo, l’Umbria Olii, la Mecnavi, giusto per citarne alcune.
Come e più delle altre volte, l’atteggiamento, il tentativo smaccato delle istituzioni, dei nostri squallidi politicanti e degli organi di stampa, è stato quello di scaricare l’intera colpa sui criminali padroni cinesi.
Ma sono soltanto loro gli infami responsabili di questo assassinio?
I sette operai cinesi morti nel rogo di Prato, facevano parte di quell’esercito di proletari immigrati che oggi costituisce circa il 10% degli occupati nel nostro paese e che produce circa il 12% della ricchezza nazionale.
Operai senza diritti, senza orario, senza sicurezza, ricattati dai permessi di soggiorno, usati dal capitale per estrarre montagne di plusvalore e per premere sull’intera massa di lavoro proletario, così da peggiorare le condizioni di tutti.
Nella fattispecie, operai senza nome che vendono la loro forza-lavoro per salari irrisori e a condizioni di lavoro bestiali per produrre merci a basso costo richieste dalle firme italiane del “fashion”.
Sono queste aziende che dettano modalità e tempi di consegna delle merci, facendo gestire le galere industriali a padroni e prestanomi cinesi con i quali spartire i profitti; la fabbrica-dormitorio di Prato non è nulla di nuovo che il modello di sfruttamento e flessibilità che il capitale impone.
E’ l’altra faccia della delocalizzazione, delle strategie di molte aziende tessili attente alle mutevoli esigenze della "moda" che esige tempi rapidi, specializzazione e vicinanza con la rete dei subfornitori; tutto questo serve al grande capitale, ai grossisti che controllano le filiere produttive e commerciali alla ricerca del massimo profitto, la sola legge che il capitale conosce.
Per questo le istituzioni spesso chiudono entrambi gli occhi sui "rispettabili titolari di imprese", siano essi italiani o stranieri, che realizzano la spremitura di plusvalore nel cosiddetto sommerso per offrire il "prezzo migliore" e realizzare l’affare.
La strage di Prato non è una strage "cinese", ma una strage "made in Italy".
Bruciati vivi nella fabbrica-dormitorio in cui lavoravano, immolati sull’altare del dio profitto, come se fossero ancora in una di quelle zone economiche speciali su cui si fonda il miracolo cinese.
Perché la nuova cartografia del lavoro non riconosce più i confini tra metropoli e periferia e universalizza al ribasso le condizioni di vita e di sfruttamento di milioni di proletari.
Essa svela il volto disumano e criminale di un modo di produzione e di appropriazione di prodotti che poggia sugli antagonismi di classe, sullo sfruttamento degli operai, della forza lavoro da parte dei capitalisti.
Se il paese d'origine degli operai sacrificati è la Cina, potenza capitalista emergente nella quale esistono rapporti sociali di produzione altrettanto bestiali di quelli subiti dagli operai di Prato, il luogo in cui questi operai sono stati immolati per gli interessi dei capitalisti, è l’Italia.
Un "democratico" paese imperialista sulla via del declino, che vede nel decantato distretto tessile di Prato il modello da applicare per reggere la concorrenza internazionale, rilanciare l’export e tornare alla "crescita".
Un "bel paese" che,  per evitare di mettere a repentaglio gli investimenti delle multinazionali italiane in Cina, glissa sui controlli severi da praticare sulle imprese cinesi in Italia, a partire dal depotenziamento delle strutture adibite a quel compito,

Il tutto, a costo di spendere qualche lacrimuccia di coccodrillo.