Ministero dell'Economia e delle Finanze

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mercoledì 4 dicembre 2013

made in Italy.

Abbiamo aspettato alcuni giorni prima di prendere la parola sulla strage di Prato.
Volevamo cogliere in flagrante l’atteggiamento prevalente sull’ennesima mattanza di operai, stavolta di nazionalità cinese, simile purtroppo ad altre stragi annunciate, come la Tyssenkrupp, la Mineo, l’Umbria Olii, la Mecnavi, giusto per citarne alcune.
Come e più delle altre volte, l’atteggiamento, il tentativo smaccato delle istituzioni, dei nostri squallidi politicanti e degli organi di stampa, è stato quello di scaricare l’intera colpa sui criminali padroni cinesi.
Ma sono soltanto loro gli infami responsabili di questo assassinio?
I sette operai cinesi morti nel rogo di Prato, facevano parte di quell’esercito di proletari immigrati che oggi costituisce circa il 10% degli occupati nel nostro paese e che produce circa il 12% della ricchezza nazionale.
Operai senza diritti, senza orario, senza sicurezza, ricattati dai permessi di soggiorno, usati dal capitale per estrarre montagne di plusvalore e per premere sull’intera massa di lavoro proletario, così da peggiorare le condizioni di tutti.
Nella fattispecie, operai senza nome che vendono la loro forza-lavoro per salari irrisori e a condizioni di lavoro bestiali per produrre merci a basso costo richieste dalle firme italiane del “fashion”.
Sono queste aziende che dettano modalità e tempi di consegna delle merci, facendo gestire le galere industriali a padroni e prestanomi cinesi con i quali spartire i profitti; la fabbrica-dormitorio di Prato non è nulla di nuovo che il modello di sfruttamento e flessibilità che il capitale impone.
E’ l’altra faccia della delocalizzazione, delle strategie di molte aziende tessili attente alle mutevoli esigenze della "moda" che esige tempi rapidi, specializzazione e vicinanza con la rete dei subfornitori; tutto questo serve al grande capitale, ai grossisti che controllano le filiere produttive e commerciali alla ricerca del massimo profitto, la sola legge che il capitale conosce.
Per questo le istituzioni spesso chiudono entrambi gli occhi sui "rispettabili titolari di imprese", siano essi italiani o stranieri, che realizzano la spremitura di plusvalore nel cosiddetto sommerso per offrire il "prezzo migliore" e realizzare l’affare.
La strage di Prato non è una strage "cinese", ma una strage "made in Italy".
Bruciati vivi nella fabbrica-dormitorio in cui lavoravano, immolati sull’altare del dio profitto, come se fossero ancora in una di quelle zone economiche speciali su cui si fonda il miracolo cinese.
Perché la nuova cartografia del lavoro non riconosce più i confini tra metropoli e periferia e universalizza al ribasso le condizioni di vita e di sfruttamento di milioni di proletari.
Essa svela il volto disumano e criminale di un modo di produzione e di appropriazione di prodotti che poggia sugli antagonismi di classe, sullo sfruttamento degli operai, della forza lavoro da parte dei capitalisti.
Se il paese d'origine degli operai sacrificati è la Cina, potenza capitalista emergente nella quale esistono rapporti sociali di produzione altrettanto bestiali di quelli subiti dagli operai di Prato, il luogo in cui questi operai sono stati immolati per gli interessi dei capitalisti, è l’Italia.
Un "democratico" paese imperialista sulla via del declino, che vede nel decantato distretto tessile di Prato il modello da applicare per reggere la concorrenza internazionale, rilanciare l’export e tornare alla "crescita".
Un "bel paese" che,  per evitare di mettere a repentaglio gli investimenti delle multinazionali italiane in Cina, glissa sui controlli severi da praticare sulle imprese cinesi in Italia, a partire dal depotenziamento delle strutture adibite a quel compito,

Il tutto, a costo di spendere qualche lacrimuccia di coccodrillo.

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