Ministero dell'Economia e delle Finanze

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mercoledì 24 settembre 2014

Articolo 18 e Jobs Act

In questi giorni assistiamo ad un “ritorno di fiamma” sulla volontà del governo di abolire l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori facendo calare, in questo modo, il silenzio sulla famosa riforma del lavoro, il “jobs act”, che approda domani all'esame dell'aula del Senato.
Infatti, il cosiddetto “jobs act” rischia di passare sotto silenzio proprio a causa di una diatriba assolutamente fuorviante quella, cioè, sulla presunta conservazione o abolizione dell’articolo 18.
Noi siamo convinti, invece, che non sia quello il centro del discorso; anzi, paradossalmente è l’aspetto meno decisivo della riforma proposta.
Intendiamoci, l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori non solo è un perno centrale dei diritti dei lavoratori sul posto di lavoro perché li protegge effettivamente dai licenziamenti ingiustificati ma, anche, perché li protegge simbolicamente.
Senza quel simbolo, vero e proprio argine ideale allo strapotere capitalista anche nei rapporti insiti nella formalità contrattuale, la deriva sarebbe inevitabile.
Per capirci, basta fare un esempio: in Spagna l’abolizione di un vincolo simile all’articolo 18 ha visto non solo l’aumento indiscriminato dei licenziamenti senza giustificato motivo, ma il corrispettivo indennizzo economico al lavoratore licenziato si è mano a mano ristretto fino a diventare una ridicola liquidazione di poche mensilità.
Insomma, l’argine dell’articolo 18 permette anche, o forse soprattutto, il mantenimento di un eventuale rilevante indennizzo economico per cui potrebbe optare il lavoratore licenziato.
L’azienda, cercando di impedire ad ogni costo il reinserimento del lavoratore, con l’articolo 18 è portata a pagare “pesantemente” l’eventuale licenziamento.
Senza articolo 18, questo rapporto di forza cesserebbe, rendendo ininfluente la cifra da versare al lavoratore licenziato.
La sostituzione del reintegro con l’indennizzo è, quindi, una bufala: già è così nei fatti e, senza articolo 18, non lo sarà più, non ci sarà alcun indennizzo ma solo una mancia senza dignità.
Sgomberato, pertanto, qualunque eventuale equivoco sulla rilevanza che per noi ha l’articolo 18, l’intenzione dell’apparato mediatico-politico dispiegato però è proprio quello di far concentrare l’attenzione solo ed esclusivamente sul feticcio “articolo18” lasciando, così, in ombra, o addirittura promuovendo, tutto il resto della riforma.
Anzitutto, tale riforma poggia su una retorica ideale assolutamente fallace, quella per cui per allargare i diritti dei precari, nonché risolvere la loro perenne disoccupazione, bisognerebbe restringere i diritti dei lavoratori cosiddetti garantiti. Anzi, sembrerebbe essere proprio questa massa di “garantiti” la causa principale delle condizioni di vita dei milioni di precari e disoccupati presenti nel nostro paese, nonché nel resto d’Europa.
L’associazione mentale-ideologica tra chi difende e rappresenta i “garantiti” e il governo protettore dei precari è presto fatta, costruendo quel meccanismo ideologico semplice e opportunista per cui sarebbero stati “solo” i sindacati i responsabili dell’allargamento universale del precariato lavorativo.
Non saremo certo noi a difendere l’operato dei sindacati; infatti, da tempo immemore non solo questi hanno abbandonato ogni ipotesi di conflittualità e, dunque, di difesa attiva dei diritti dei lavoratori nel posto di lavoro, ma hanno svolto anche una parte da protagonisti sulla deregolamentazione del mercato del lavoro in favore del padronato.
Detto questo, quindi, noi riteniamo che l’esplosione del precariato è stata determinata in questi anni esattamente da quelle politiche economiche liberiste portate avanti dal riformismo liberale che, oggi, governa il paese.
A partire dal pacchetto Treu, fino ai giorni nostri, tutte le riforme che si sono susseguite, viste benevolmente dal sindacato, sono proprio il frutto di quella visione politica dominante che sulle riforme del lavoro viaggia alla stessa velocità e nella stessa direzione.
Per comprendere tutto ciò, è opportuno, per chi è intenzionato a proseguire la lettura, rilevare le caratteristiche salienti di questa ennesima riforma del mercato del lavoro, caratteristiche decisive ed epocali, su cui nessuno si sofferma se non per apprezzarle o considerarle necessarie e improrogabili.


1)      La riforma del mercato del lavoro istituisce definitivamente i cosiddetti “mini jobs”, sia prevedendoli direttamente sia espandendo la potenziale utilizzazione del contratto d’apprendistato per i nuovi entrati nel mondo del lavoro. Questo strumento, che è alla base della competitività tedesca, è il cuore stesso della riforma. Attraverso i mini jobs sarà possibile per l’azienda di turno, modellare efficacemente la produzione al “just in time”, assumendo lavoratori sottopagati nei picchi di produttività con la garanzia di licenziarli appena la produzione rientra nella normalità. Il cuore stesso della competitività tedesca, come dicevamo: da una parte, la grande massa dei non garantiti su cui si fonda l’estrema produttività della propria economia; dall’altra, un ristretto nucleo di operai, con stipendi alti e super-contrattualizzati, rappresentanti da sindacati inseriti nell’organizzazione aziendale di cui godono profitti e rendite.
2)      Il modello tedesco, su cui è imperniata tutta la riforma del "jobs act" del governo, poggia su un sistema economico orientato esclusivamente all’export. Questo fatto, che potrebbe apparire un mero dato tecnico è, invece, centrale per capire come si va riorganizzando la produzione italiana. Un mercato costruito sulle esportazioni non prevede lo stimolo della domanda interna e, dunque, non ha necessità di livelli salariali capaci di rendere possibile l’assorbimento della produzione nazionale da parte dei lavoratori che la producono materialmente. Il “modello-Germania” è, infatti, basato sulla moderazione salariale, cioè su salari inferiori alla media della produttività. Questo è possibile perché non è importante per il sistema economico tedesco che le merci prodotte siano consumate in Germania. Le merci sono destinate all’estero, e questo rende ininfluente pagare salari tali da consentire al sistema economico di rigenerare se stesso. Dunque, se dovesse passare il “jobs act”, si certificherebbe la riduzione salariale complessiva dei lavoratori dipendenti italiani, contraendo la domanda interna e generando contraddizioni a lungo termine del modello di sviluppo difficilmente affrontabili. Infatti, questo gioco funziona se, all’interno della medesima area monetaria, solo uno è il paese competitivo nel determinato settore di riferimento, ad esempio la manifattura. Se diventano due o più, non potendo gli altri svalutare moneta per rendere più competitive le proprie merci, questi andranno incontro a fenomeni di de-industrializzazione, come infatti sta avvenendo da anni nel nostro paese. L’area monetaria dell’Unione Europea sta andando incontro ad una specializzazione produttiva tale per cui l’area dedita all’industria manifatturiera sarà la Germania; gli altri paesi dovranno specializzarsi in altri campi economici/produttivi. Sembrerebbe una divisione neutra, ma non è così: la capacità industriale consente indipendenza e autonomia politica. Una capacità economica di altro tipo, ad esempio nel settore dei servizi, del turismo, della logistica, porta col tempo alla perdita di autonomia e di indipendenza nei confronti del mercato. Per la Germania sarà sempre possibile “fare da sé”, mentre gli altri paesi saranno dipendenti dai flussi economici esteri, dalle “bizze” dei mercati, ecc.
3)      Lo strumento cardine per favorire il nuovo modello produttivo che dovrebbe partorire tale riforma è l’abolizione della contrattazione nazionale a favore di quella territoriale o aziendale. I motivi sono facilmente intuibili: moltiplicando all’infinito il numero di contratti, decentrando capillarmente ogni decisione e ogni eventuale rapporto di forza strappato con la lotta, i lavoratori perdono la propria capacità di influenzare il sistema delle relazioni industriali a livello generale. Ogni lavoratore sarà solo di fronte all’azienda, non si potrà più contrattare a livello aziendale ciò che si riusciva a strappare a livello nazionale. Mentre la contrattazione a livello nazionale garantiva uguali diritti a tutti i lavoratori interessati, eliminando disparità territoriali o contingenti legati alla situazione di questa o quella azienda, questo o quel padrone, con la contrattazione aziendale non potrà esistere alcun passo in avanti generale. Nessuna vertenza sarà generalizzabile, e le vittorie o le sconfitte saranno esclusive dell’azienda in cui avvengono, impedendo sul nascere avanzamenti sindacali validi erga omnes.

Queste sono, per noi, tre delle caratteristiche centrali della promessa riforma sul lavoro, accettate ormai da tutti perché, sull’altro piatto della bilancia, verrebbero previste tutta una serie di garanzie economiche per chi perde il lavoro o periodi di disoccupazione; insomma, perché si allargherebbe l’intervento statale nel non-lavoro.
Un patto diabolico, che allinea il mercato del lavoro italiano a quello degli altri paesi, visti come riferimento per normali relazioni lavorative fondate sul superamento del rapporto capitale-lavoro in favore della cogestione dei profitti tra azienda e lavoratore.
Una riforma che istituisce, per legge, una divisione dei lavoratori, quelli di serie “A” che possono accedere al contratto “a tutele crescenti” (gigantesca balla reazionaria) e quelli di serie “B”  che consentirà, nei fatti, la competitività delle aziende, cioè la mano d’opera desindacalizzata, sottopagata e senza contratto dell’esercito di apprendisti, stagisti, legati a forme legali del tipo dei mini jobs.
Per questi motivi la discussione solo sull’articolo 18 è fuorviante, un diversivo; in realtà è indispensabile, oltre che opporsi ovviamente all'abrogazione dell'articolo 18, rispedire al mittente l’intero “jobs act”, voluto tenacemente dalla famosa "troika" e mediante il quale si svela il reale volto reazionario di una Unione Europea il cui processo di unificazione è nato dall'esigenza del capitale di dar vita a una giungla di supersfruttamento, di umiliazione per i lavoratori e che non ammette né tollera mediazioni sociali, né freno politico alcuno al proprio procedere imperialista.
Insomma, un vero incubo per i lavoratori, ma una vera manna per il capitale.

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