Ministero dell'Economia e delle Finanze

Ministero dell'Economia e delle Finanze

giovedì 6 febbraio 2014

Uno di noi.

Martedì scorso, Giuseppe si è ucciso nella sua casa di Afragola.
Abbiamo sempre pensato che dietro a un atto così intimo, come un suicidio, ci siano sempre motivazioni sottili e segrete e si debba stare un attimo in silenzio, tacere, stringersi intorno agli affetti che restano, alla moglie, ai figli, agli amici che devono sopportare un colpo così duro.
Qui il silenzio è la migliore forma di rispetto che si possa avere: che parli, invece, chi conosceva Pino, che si ricordino i suoi momenti felici.
Stiano zitti i giornalisti, i politici, i commentatori da bar che individuano le cause del suo gesto in "questioni di carattere familiare" ma che, in realtà, di quella vita non sapevano nulla.
Ma noi, invece, vogliamo parlare, fosse anche soltanto per elaborare insieme questo lutto.
Perché, anche se Pino non lo conoscevamo direttamente, di lui ci sentiamo intimamente compagni.
Perché Pino era un operaio, perché Pino era vittima di ingiustizia, perché Pino era un vero militante.
E vogliamo parlare per sottolineare una verità indiscutibile.
Noi non sappiamo quale disperazione ti porta a toglierti la vita, se davvero si possono trovare delle "cause" per un tale gesto, ma sappiamo di sicuro che se metti una persona a fare una vita difficile, dura, se gli togli il lavoro e la lasci per sei anni in cassa integrazione, se non gli dai speranza e prospettive, ogni momento di dolore si fa più difficile, ogni difficoltà, anche personale, si fa enorme.
Come molti operai militanti, in questo caso dello Slai Cobas, era stato identificato già da numerosi anni dalla stessa azienda come il più battagliero e, per questo, Pino era stato deportato, nel 2008, nel reparto-confino di Nola e d’allora si trovava in cassa integrazione a zero ore.
Un reparto dove venivano messi gli operai "fastidiosi", solo perché magari avevano osato rivendicare i loro diritti, perché si erano opposti allo sfruttamento che ogni giorno si vive in fabbrica.
Un reparto che non è mai stato messo in funzione, lontano da tutto, dove non si faceva nulla, dove ti assaliva il senso di inutilità, dove eri isolato dal corpo operaio di Pomigliano e dalle sue lotte, che spesso ti danno la forza per tenerti in vita.
C'è una foto emblematica di Pino in rete, megafono in pugno, con addosso un cartello dalla scritta eloquente: "operaio deportato al reparto confino di Nola grazie a un accordo sindacale".
Un trasferimento tremendo, quindi, quello dalla grande fabbrica automobilistica al piccolo impianto, realizzato nell'interporto di Nola per smistare i materiali verso i vari stabilimenti del gruppo ubicati nel centro sud; un progetto mai decollato e da allora 316 persone versano in una cassa integrazione che sembra non dare speranze.
Di fronte a questo gesto della FIAT, poche erano state le reazioni "indignate" del mondo intellettuale, della società civile, degli stessi altri sindacati che non solo non si erano opposti a questa deportazione di trecento operai, ma l’avevano ben vista per poter finalmente allontanare da Pomigliano dei sindacalisti "guastafeste", che li inchiodavano alle loro responsabilità.
Eppure, per il Lingotto, quella fabbrica e quel reparto è l’esempio riuscito della cura Marchionne: i sindacati conflittuali cacciati dalla fabbrica, il contratto rivisto al ribasso, gli operai terrorizzati sulle linee, costretti a subire lavate di capo davanti al reparto.
La chiamano efficienza e bassa conflittualità.
Riteniamo, quindi, che sia giusto ricordare queste cose, per rendere onore a Pino e a tutti i suoi compagni che ancora resistono.
Per questo pensiamo che i responsabili di questa morte siano da ricercare in tutte queste componenti che hanno consapevolmente ingannato e tradito i lavoratori, che ne hanno peggiorato le condizioni con l’accordo di Pomigliano del 2010.
Un accordo-truffa che scambiava i diritti con il mantenimento dei livelli occupazionali e che, alla fine, ha distrutto questi e quelli, mentre si è sempre più sfruttati, si è sempre, anche più, disoccupati.
Nel frattempo la FIAT si fonde con Chrysler, diventa FCA per speculare meglio sui mercati finanziari, se ne va dall’Italia e i suoi profitti li sconta, pochissimo, a Londra.
Ecco qual è la verità dietro questa tragica storia.
E se vogliamo che il gesto di Pino non sia stato vano, dobbiamo prenderci il tempo per riflettere e la voglia per agire.
Per ritrovare quell’unità e coscienza di classe che sola ci può far vincere contro dei padroni che ci vogliono come macchine, come schiavi, come costi del processo produttivo, che ci possono allontanare o buttare via in qualsiasi momento.
Sappiamo che tutto questo è molto difficile, ma sappiamo anche che alternative non ce ne sono.
E la nostra fiducia negli operai e nei compagni, oltre che in tutta la storia del movimento dei lavoratori, ci spinge a credere che anche le cose più difficili siano possibili.
Infine, non è vero che a noi lavoratori del MEF tutto questo non riguarda, che scriviamo e stimoliamo riflessioni su questioni che non hanno attinenza con la nostra condizione, con il nostro lavoro.

Pino era uno di noi, Pino è uno di noi.

Nessun commento:

Posta un commento