Martedì scorso, Giuseppe si è ucciso nella sua casa di
Afragola.
Abbiamo sempre pensato che dietro a un atto così intimo, come un
suicidio, ci siano sempre motivazioni sottili e segrete e si debba stare un
attimo in silenzio, tacere, stringersi intorno agli affetti che restano, alla
moglie, ai figli, agli amici che devono sopportare un colpo così
duro.
Qui il silenzio è la migliore forma di rispetto che si possa
avere: che parli, invece, chi conosceva Pino, che si ricordino i suoi momenti
felici.
Stiano zitti i giornalisti, i politici, i commentatori da bar che
individuano le cause del suo gesto in "questioni di carattere familiare" ma che,
in realtà, di quella vita non sapevano nulla.
Ma noi, invece, vogliamo parlare, fosse anche soltanto per
elaborare insieme questo lutto.
Perché, anche se Pino non lo conoscevamo direttamente, di lui ci
sentiamo intimamente compagni.
Perché Pino era un operaio, perché Pino era vittima di
ingiustizia, perché Pino era un vero militante.
E vogliamo parlare per sottolineare una verità
indiscutibile.
Noi non sappiamo quale disperazione ti porta a toglierti la vita,
se davvero si possono trovare delle "cause" per un tale gesto, ma sappiamo di
sicuro che se metti una persona a fare una vita difficile, dura, se gli togli il
lavoro e la lasci per sei anni in cassa integrazione, se non gli dai speranza e
prospettive, ogni momento di dolore si fa più difficile, ogni difficoltà, anche
personale, si fa enorme.
Come molti operai militanti, in questo caso dello Slai Cobas, era
stato identificato già da numerosi anni dalla stessa azienda come il più
battagliero e, per questo, Pino era stato deportato, nel 2008, nel
reparto-confino di Nola e d’allora si trovava in cassa integrazione a zero
ore.
Un reparto dove venivano messi gli operai "fastidiosi", solo
perché magari avevano osato rivendicare i loro diritti, perché si erano opposti
allo sfruttamento che ogni giorno si vive in
fabbrica.
Un reparto che non è mai stato messo in funzione, lontano da
tutto, dove non si faceva nulla, dove ti assaliva il senso di inutilità, dove
eri isolato dal corpo operaio di Pomigliano e dalle sue lotte, che spesso ti
danno la forza per tenerti in vita.
C'è una foto emblematica di Pino in rete, megafono in pugno, con
addosso un cartello dalla scritta eloquente: "operaio deportato al reparto
confino di Nola grazie a un accordo sindacale".
Un trasferimento tremendo, quindi, quello dalla grande fabbrica
automobilistica al piccolo impianto, realizzato nell'interporto di Nola per
smistare i materiali verso i vari stabilimenti del gruppo ubicati nel centro
sud; un progetto mai decollato e da allora 316 persone versano in una cassa
integrazione che sembra non dare speranze.
Di fronte a questo gesto della FIAT, poche erano state le reazioni
"indignate" del mondo intellettuale, della società civile, degli stessi altri
sindacati che non solo non si erano opposti a questa deportazione di trecento
operai, ma l’avevano ben vista per poter finalmente allontanare da Pomigliano
dei sindacalisti "guastafeste", che li inchiodavano alle loro
responsabilità.
Eppure, per il Lingotto, quella fabbrica e quel reparto è
l’esempio riuscito della cura Marchionne: i sindacati conflittuali cacciati
dalla fabbrica, il contratto rivisto al ribasso, gli operai terrorizzati sulle
linee, costretti a subire lavate di capo davanti al
reparto.
La chiamano efficienza e bassa
conflittualità.
Riteniamo, quindi, che sia giusto ricordare queste cose, per
rendere onore a Pino e a tutti i suoi compagni che ancora
resistono.
Per questo pensiamo che i responsabili di questa morte siano da
ricercare in tutte queste componenti che hanno consapevolmente ingannato e
tradito i lavoratori, che ne hanno peggiorato le condizioni con l’accordo di
Pomigliano del 2010.
Un accordo-truffa che scambiava i diritti con il mantenimento dei
livelli occupazionali e che, alla fine, ha distrutto questi e quelli, mentre si
è sempre più sfruttati, si è sempre, anche più,
disoccupati.
Nel frattempo la FIAT si fonde con Chrysler, diventa FCA per
speculare meglio sui mercati finanziari, se ne va dall’Italia e i
suoi profitti li sconta, pochissimo, a Londra.
Ecco qual è la verità dietro questa tragica
storia.
E se vogliamo che il gesto di Pino non sia stato vano, dobbiamo
prenderci il tempo per riflettere e la voglia per
agire.
Per ritrovare quell’unità e coscienza di classe che sola ci può
far vincere contro dei padroni che ci vogliono come macchine, come schiavi, come
costi del processo produttivo, che ci possono allontanare o buttare via in
qualsiasi momento.
Sappiamo che tutto questo è molto difficile, ma sappiamo anche che
alternative non ce ne sono.
E la nostra fiducia negli operai e nei compagni, oltre che in
tutta la storia del movimento dei lavoratori, ci spinge a credere che anche le
cose più difficili siano possibili.
Infine, non è vero che a noi lavoratori del MEF tutto questo non
riguarda, che scriviamo e stimoliamo riflessioni su questioni che non hanno
attinenza con la nostra condizione, con il nostro
lavoro.
Pino era uno di noi, Pino è uno di
noi.
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