Sono
numerosi i lavoratori che ci sollevano critiche su una nostra "linea", per così
dire vetero marxista, ormai datata e superata dagli eventi della
storia.
L'utilizzo di
vocaboli come padroni, capitale, borghesia, mezzi di produzione, proletariato,
lotta di classe, ne sarebbe la controprova.
E'
vero, l’espressione lotta di classe è stata progressivamente abbandonata;
proprio per questo, chi parla di lotta di classe come noi è visto come un
vecchio ortodosso, che ripropone vecchie teorie obsolete, sconfitte dalla storia
e non più rispondenti alla realtà.
Ma
in realtà, Marx affidò proprio alla lotta tra le classi il ruolo di motore della
storia.
Secondo
molti, infatti, le classi sociali non esisterebbero più, non esisterebbe la
distinzione tra proletariato e borghesia così come ai tempi in cui Marx
scriveva.
Nessuno
nega il fatto che in due secoli ci siano state modifiche nella composizione
delle classi sociali, che siano cambiati contesti, modi di esprimere queste
differenze.
La
vecchia mentalità borghese ha subito certamente delle modifiche, l’articolazione
della classe operaia anche, dovuta in modo particolare ad una nuova divisione
del lavoro, all’emergere di nuove forme contrattuali, professionali, che non si
ascrivono nel modello dell’operaio dell’industria
fordista.
Ma
queste modifiche nelle forme, tuttavia, hanno lasciato in questi duecento anni
del tutto intatto l’elemento sostanziale della somma differenza tra chi detiene
i mezzi di produzione e chi riceve un salario in cambio del proprio lavoro.
Niente
altro che il vecchio conflitto tra capitale e lavoro, dove oggi il capitale non
è solo quello industriale produttivo, ma nella fase del capitalismo
monopolistico che noi viviamo, è quella fusione inestricabile tra capitale
industriale e finanziario (banche, assicurazioni, istituti di
credito).
Al
contempo, l’abbandono di una visione conflittuale della lotta sindacale, ha
lasciato enormi masse di lavoratori in balìa di un bombardamento ideologico
mirato a inculcare la fine dalla divisione di classe, la possibilità del
profitto e del benessere per tutti.
L’ubriacatura
ideologica degli anni 80 e 90 ha prodotto un abbassamento enorme del grado di
coscienza di classe tra i lavoratori.
Vi
ricordate, per esempio, come pubblicizzavano, i sindacalisti di professione, la
trasformazione privatistica del rapporto di lavoro pubblico come panacea di
tutti i mali, che avrebbe prodotto miglioramenti professionali ed economici per
tutti?
O quando
ci hanno iniziato a raccontare la favola dell’insostenibilità della previdenza
pubblica, del dualismo padre/figlio che obbligava l’introduzione della
previdenza complementare con tanto di furto del TFR/TFS?
L’idea
delle "partite IVA" del tutti "imprenditori di sé stessi", insieme alla
parcellizzazione delle forme contrattuali, l’attacco alla contrattazione
nazionale, l’esternalizzazione dei servizi, la flessibilità del mercato del
lavoro e la sua precarizzazione, hanno prodotto una divisione enorme tra i
lavoratori, che è stata enfatizzata culturalmente come fine della divisione di
classe e utilizzata materialmente per dividere ed impedire rivendicazioni
unitarie.
Nella
realtà delle cose si tratta di nuove e più forti forme di sfruttamento che
consentono di superare diritti acquisiti dai lavoratori salariati nello scorso
secolo.
Ma
come si sa, la realtà economica modifica le idee più di quanto esse modifichino
la realtà economica.
Con
l’esplosione della crisi economica si avverte un iniziale ritorno di presa di
coscienza da parte del nuovo proletariato, mutato nelle forme, ma rimasto
invariato nella sostanza.
La
chiusura delle fabbriche, l’impoverimento di massa del cosiddetto "ceto medio",
la crescente disuguaglianza sociale, la consapevolezza di una politica legata ai
grandi interessi economici, fanno crescere di giorno in giorno l’idea di
appartenenza di classe, molto più di quanto accadesse fino a qualche anno
fa.
La
testimonianza che la divisione tra classi permane, è data dal fatto che in
questi anni i detentori dei colossi monopolistici hanno costantemente
guadagnato.
Nonostante
si tenti di far passare il messaggio del "siamo tutti sulla stessa barca" il
conflitto tra capitale e lavoro emerge con forza nel momento della crisi, quando
di fronte all’impoverimento di enormi masse di lavoratori, gettati nella
disoccupazione, o nella spirale dell’abbassamento dei salari, i grandi
monopolisti aumentano considerevolmente i loro profitti.
Proprio
alcuni giorni fa, il mensile americano Forbes ha pubblicato l’analisi annuale
sui 400 uomini più ricchi d’America, confrontandoli con il resto del
paese.
Tra
questi figurano Bill Gates, Warren Buffett, Larry Ellison, David Duffield,
Rupert Murdoch, uomini che non hanno bisogno di presentazioni. L’insieme dei
patrimoni personali di questi 400 magnati, vale 2.000 miliardi di dollari,
l’equivalente del prodotto interno lordo della Russia.
Questo
patrimonio è aumentato in un anno di 300 milioni di dollari, portando la quota
del loro reddito al 19,3% del reddito complessivo delle famiglie
americane.
Come
disse alcuni anni fa proprio Warren Buffett: "la lotta di classe esiste e la
stiamo vincendo noi".
Restando
in casa nostra, da una analisi effettuata dalla Coldiretti, dall'inizio della
crisi sono praticamente raddoppiati (+99%) gli italiani che si trovano in una
condizione di povertà assoluta ed oggi sono 4,81 milioni quelli che non hanno
una disponibilità economica sufficiente neanche ad acquistare beni e servizi
essenziali per vivere.
Per questo noi non ci
vergogniamo ad usare le parole operai, padroni, borghesi, classe, proletariato e
lotta di classe.
Perché facendo
scomparire le parole scompaiono anche i soggetti, le contraddizioni e, in questo
modo chi subisce lo sfruttamento, chi è impoverito e depauperato, non ha più le
parole per identificare se stesso ne per identificare la
controparte; non sapremo dare un
nome alla causa dei nostri problemi, non sapremo contro chi lottare e non
sapremo nemmeno chi siamo.
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