Ministero dell'Economia e delle Finanze

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martedì 28 maggio 2013

Il fidanzatino.

Leggiamo di Fabiana, l’ennesima vittima di femminicidio.
Fabiana aveva solo 15 anni ed è stata ammazzata da un suo coetaneo, solo di un anno più grande; le ha dato fuoco che era ancora viva.
Nonostante le numerose coltellate ricevute, Fabiana ha tentano di resistere, cercando di versare per terra il contenuto della tanica ma non ce l’ha fatta e lui le ha dato fuoco, ancora agonizzante.
Fabiana voleva lasciarlo da tempo ma lui era più forte, lui è stato più forte.
Lui è un macho, il classico modello di uomo tanto in voga, lo stereotipo della cultura dominante al quale tantissimi si proiettano, quello che ti protegge, ti tutela; la picchiava, la pestava da tempo e una volta le ha anche rotto il naso.
Fabiana lo aveva anche denunciato ma, come al solito, l’epilogo è stato che adesso lei non c’è più.
Ma i giornali, nel raccontare questa tragedia, lo chiamano il “fidanzatino” che l’ha ammazzata per gelosia.
Sono anni, ormai, che tentiamo di spiegare sempre le stesse cose, sull’importanza dell’uso delle parole perché se attenzioni e rappresenti una storia così tremenda con quelle terminologie, in qualche modo sei complice di quello che è accaduto.
Ed è la stessa logica di chi sostiene, per esempio, che le parole come operai, padroni, borghesi, classe, sono roba vecchia, inutilizzabile.
Solo che facendo sparire le parole, scompaiono anche i soggetti e le contraddizioni.
Non ci sono più i lavoratori c'è la classe media. Non ci sono più gli sfruttati, ci sono gli sfigati. Non ci sono più gli sfruttatori, c'è la casta dei politici e via di questo passo.
In questo modo chi subisce lo sfruttamento, chi è impoverito e depauperato, non ha più le parole per identificare se stesso ne, per identificare la controparte.
Anche qui da noi al MEF, dobbiamo saper usare le parole con il loro vero significato e saper identificare correttamente lo sfruttatore dallo sfruttato, la classe dominante da quella subalterna, la dignità dalla schiavitù.
Su Fabiana, i giornali sono impegnati a rappresentare le sue foto, dimenticandosi però della sua tenera età; descrivono minuziosamente la sua stanza; raccontano che sorrideva sempre ed era buona e gentile.
Ma che stanza poteva avere una ragazzina di 15 anni?
Ma perché creare quest’immagine da povera martire?
Fabiana non voleva essere una martire e, a 15 anni, i progetti di vita sono proprio altri; Fabiana era la ragazzina che tutte le donne sono state a 15 anni e, a 15 anni, si è vulnerabili, non si ha ancora una propria identità, si cerca in ogni modo di conformarsi, di rispecchiare i modelli imposti da questa incultura regnante.
E allora inizi a cercare il classico uomo che ti protegga; ma il più delle volte quello che ti protegge è quello che ti pesta, ti difende dagli sguardi degli altri trattandoti come un oggetto, il suo; e lui, di te può fare ciò che meglio crede.
Prenderti, lasciarti, non chiamarti, seguirti, farti soffrire, impedirti di uscire con le amiche, tirarti qualche schiaffo e poi tornare con la faccia affranta e chiederti scusa; e ti dice quelle cose che, a 15 anni, ti fanno sciogliere e sentire importante.
Perché ti insegnano, da quando nasci, ad essere dolce, carina, romantica, accondiscendente e quelle frasi e quel suo comportamento te li fai piacere; anzi, alla fine il suo comportamento tu non lo noti neanche più, perché questi tipi di rapporti e di comportamenti, in questo nostro paese di merda, sono ancora troppo normalizzati e, una ragazzina di 15 anni, non ha la capacità e la forza di dire no a tutto ciò.
Anche se Fabiana ci ha provato con tutte le sue forze a farlo.
Per questo dobbiamo insegnare alle nostre figlie a non sorridere se non ne hanno voglia, ad essere soggetti attivi e non prede, a non essere accondiscendenti, ad avere sogni e progetti, a non raccontate loro solo storie di principesse ma raccontare anche le storie di eroine coraggiose, che le ragazze non hanno bisogno di principi azzurri o cavalieri che le proteggano, ma che hanno bisogno di libertà, amore, sogni, di amiche e di amici, di amanti che non gli mettano una catena al piede, che non le prendano a botte, a coltellate o che gli versino una tanica di benzina addosso.

Appunto, dobbiamo riscoprire le parole per dirlo.

2 commenti:

  1. ho apprezzato questo messaggio non tanto perché parla di un dramma che si sta ripetendo ormai con terribile e orribile continuità, ma perché nel parlarne tocca un aspetto al quale a volte non facciamo più caso: l’uso delle parole. La mia personale convinzione è che oggi più che mai il profluvio di parole che accompagna qualsiasi avvenimento o fatto (in)degno di nota, lungi dall’aiutare a capire ciò di cui si parla, serve soprattutto a confondere le idee, a creare fittizie emozioni per evitare concreti ragionamenti, a puntare dritti al cuore per tenersi a debita distanza dal cervello.
    Riappropriarsi delle parole e del loro vero significato è l’unico modo per riappropriarsi delle idee e questo, più che mai nell’era dell’informazione, è l’unico modo per riappropriarci delle nostre vite. Michele Romano

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