Vi vogliamo raccontare la storia di Alina.
Alina
Bonar Diachuk era ucraina, aveva 32 anni.
Un giorno l’hanno
presa e portata in un ufficio di polizia per l’immigrazione, in stato di fermo
illegale.
Alina, infatti, aveva patteggiato una pena il 13
aprile scorso, dopo sei mesi trascorsi in un
carcere di Gorizia per favoreggiamento di “immigrazione clandestina”, reato
inventato e costruito dal precedente governo, proprio da quelli che inneggiavano
a sparare ai gommoni, alle carrette del mare cariche di disperati mentre, nel
frattempo, in quei paesi si compravano i diplomi di
laurea.
Alina era stata
scarcerata il 14, il giorno dopo, di sabato.
Il suo avvocato le
aveva spiegato che sarebbe stata lasciata libera anche se avrebbe ricevuto un
decreto di espulsione perché nel fine settimana non ci sono i tempi tecnici per
la sentenza del giudice di pace e per il decreto prefettizio.
Invece la ragazza è
stata prelevata da una volante della polizia, portata in commissariato e lì
rinchiusa in attesa del lunedì.
Uno zelo non
richiesto, lesivo della libertà personale poiché per essere detenuti è
necessario un vaglio giurisdizionale.
Ma questo è un
sistema ampiamente collaudato e non un episodio a sé.
Dentro
a quel commissariato c’era un tale che teneva una targa mussoliniana dal titolo
“Ufficio epurazione” anziché “Ufficio immigrazione”, accanto a un busto di
Mussolini, e una serie di libri antisemiti, dichiaratamente
nazisti.
Quel tale rivestiva
il ruolo di capo dell’ufficio immigrazione e anche di vicequestore; ora è in
congedo ordinario, indagato per omicidio colposo e sequestro di
persona.
Il dirigente di
quest’ufficio, pare ritenesse le attuali leggi sull’immigrazione, troppo
morbide.
Oltre a quel tale,
c’erano anche due agenti che sorvegliavano Alina mentre era detenuta
illegittimamente in quel posto di polizia.
Alina si è
impiccata il 16 aprile, tre giorni dopo il patteggiamento della pena; si è
suicidata infilando il collo dentro un cappio che aveva appeso al termosifone
della cella in cui era stata rinchiusa da due giorni, in quel commissariato
degli orrori di villa Opicina, a Trieste.
I due agenti, che
avrebbero dovuto sorvegliare Alina, sono accusati di omicidio colposo e violata
consegna perché giusto nel momento in cui Alina si suicidava, nonostante vi
fosse anche una telecamera di sicurezza, non si sono accorti di ciò che stava
accadendo.
Le immagini della
telecamera a circuito chiuso hanno, infatti, drammaticamente filmato l’estremo
gesto di Alina. Si vede mentre disperata si scaglia contro il muro e poi mentre
batte la testa. E poi mentre estrae dalla felpa un cordino e lo annoda attorno
al collo e poi a un termosifone.
La si vede, seduta,
mentre chiude con la vita.
L‘agonia di Alina è
durata oltre 40 minuti.
Questa è la storia
di Alina, la storia di un
altro "femminicidio", di un altro suicidio di Stato come quello di chissà quanti
altri dentro i Centri di identificazione e di espulsione, dentro le carceri per
motivi di cui non siamo a conoscenza.
Qui, purtroppo, si
conclude la storia di Alina, ma non la nostra rabbia e il nostro amore che
saranno sempre con lei.
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