Ministero dell'Economia e delle Finanze

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mercoledì 29 agosto 2012

La storia di Alina.

Vi vogliamo raccontare la storia di Alina.
Alina Bonar Diachuk era ucraina, aveva 32 anni.
Un giorno l’hanno presa e portata in un ufficio di polizia per l’immigrazione, in stato di fermo illegale.
Alina, infatti, aveva patteggiato una pena il 13 aprile scorso, dopo sei mesi trascorsi in un carcere di Gorizia per favoreggiamento di “immigrazione clandestina”, reato inventato e costruito dal precedente governo, proprio da quelli che inneggiavano a sparare ai gommoni, alle carrette del mare cariche di disperati mentre, nel frattempo, in quei paesi si compravano i diplomi di laurea.
Alina era stata scarcerata il 14, il giorno dopo, di sabato.
Il suo avvocato le aveva spiegato che sarebbe stata lasciata libera anche se avrebbe ricevuto un decreto di espulsione perché nel fine settimana non ci sono i tempi tecnici per la sentenza del giudice di pace e per il decreto prefettizio.
Invece la ragazza è stata prelevata da una volante della polizia, portata in commissariato e lì rinchiusa in attesa del lunedì.
Uno zelo non richiesto, lesivo della libertà personale poiché per essere detenuti è necessario un vaglio giurisdizionale.
Ma questo è un sistema ampiamente collaudato e non un episodio a sé.
Dentro a quel commissariato c’era un tale che teneva una targa mussoliniana dal titolo “Ufficio epurazione” anziché “Ufficio immigrazione”, accanto a un busto di Mussolini, e una serie di libri antisemiti, dichiaratamente nazisti.
Quel tale rivestiva il ruolo di capo dell’ufficio immigrazione e anche di vicequestore; ora è in congedo ordinario, indagato per omicidio colposo e sequestro di persona.
Il dirigente di quest’ufficio, pare ritenesse le attuali leggi sull’immigrazione, troppo morbide.
Oltre a quel tale, c’erano anche due agenti che sorvegliavano Alina mentre era detenuta illegittimamente in quel posto di polizia.
Alina si è impiccata il 16 aprile, tre giorni dopo il patteggiamento della pena; si è suicidata infilando il collo dentro un cappio che aveva appeso al termosifone della cella in cui era stata rinchiusa da due giorni, in quel commissariato degli orrori di villa Opicina, a Trieste.
I due agenti, che avrebbero dovuto sorvegliare Alina, sono accusati di omicidio colposo e violata consegna perché giusto nel momento in cui Alina si suicidava, nonostante vi fosse anche una telecamera di sicurezza, non si sono accorti di ciò che stava accadendo.
Le immagini della telecamera a circuito chiuso hanno, infatti, drammaticamente filmato l’estremo gesto di Alina. Si vede mentre disperata si scaglia contro il muro e poi mentre batte la testa. E poi mentre estrae dalla felpa un cordino e lo annoda attorno al collo e poi a un termosifone.
La si vede, seduta, mentre chiude con la vita.
L‘agonia di Alina è durata oltre 40 minuti.
Questa è la storia di Alina, la storia di un altro "femminicidio", di un altro suicidio di Stato come quello di chissà quanti altri dentro i Centri di identificazione e di espulsione, dentro le carceri per motivi di cui non siamo a conoscenza.
Qui, purtroppo, si conclude la storia di Alina, ma non la nostra rabbia e il nostro amore che saranno sempre con lei.

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