Nel luglio del 2001 ci recammo a Genova per gridare, ai potenti del G8, “un
altro mondo è possibile”.
Un
mondo dove le scelte politiche non fossero dettate dalle banche e dagli
speculatori; dove la voce dei molti, non fosse zittita dall’arroganza dei
pochi.
Da
una parte c’era il “movimento dei movimenti”, la più imponente ondata di
mobilitazione collettiva dalla fine degli anni Settanta, dove la cifra
distintiva della pluralità ne costituiva la forza e
l’imponenza.
Dall’altra,
i governi e il potere economico che, a Genova, trovarono il teatro ideale per la
rappresentazione della tragedia, il cui finale doveva essere uno e uno solo:
fare degli anni a venire un deserto dell’opposizione sociale, per dare libero
sfogo alla globalizzazione selvaggia, al neoliberismo rampante, alla finanza da
rapina.
La
gestione dell’ordine pubblico nei giorni del G8 genovese del luglio del 2001,
rappresenta una ferita ancora oggi aperta nella storia recente della Repubblica
Italiana.
Dieci
anni dopo l’omicidio di Carlo Giuliani, non solo non sono stati individuati i
responsabili della “macelleria messicana” avvenuta nella scuola Diaz, delle
torture nella caserma di Bolzaneto, delle violenze e dei pestaggi nelle strade
genovesi, ma
chi gestì allora l’ordine pubblico a Genova ha percorso una brillante
carriera.
Mentre
lo Stato assolve se stesso da quella che Amnesty International ha definito
“la più grande sospensione dei diritti democratici in un paese
occidentale dopo la seconda guerra mondiale”, il prossimo 13
luglio dieci persone rischiano di diventare i capri espiatori e vedersi
confermare, in Cassazione, una condanna a cento anni di carcere complessivi, in
nome di un reato, “devastazione e saccheggio”, che rappresenta uno dei tanti
detriti giuridici, figli del codice penale fascista, il cosiddetto Codice
Rocco.
Un
reato concepito nel chiaro intento, tutto politico, di perseguire chi si
opponeva al regime fascista.
Oggi
è utilizzato ipotizzando una “compartecipazione psichica”, anche quando non
sussiste associazione vera e propria tra le persone imputate; recuperato per
annichilire qualsiasi espressione del dissenso, uno spauracchio ingombrante,
grazie al quale è più facile comminare pene enormi a chi si vuole
colpire.
Pene
persino superiori a quelle previste per reati come
l’omicidio.
In
questo modo, quindi, si lascia alla completa discrezionalità politica degli
inquirenti e dei giudici il compito di decidere se applicarlo o
meno.
E’
inaccettabile che, a ottant’anni di distanza, quest’aberrazione giuridica
rimanga nel nostro ordinamento e sia usata per condannare eventi di piazza così
importanti, che hanno coinvolto centinaia di migliaia di persone, come le
mobilitazioni contro il G8 a Genova nel 2001.
In
questi 11 anni, in Italia e non solo, i governi hanno dato vita ad una
sperimentazione continua degli apparati di controllo, costituita dal connubio
indissolubile tra la le misure repressive attuate nelle piazze e i sottili
meccanismi preventivi e punitivi.
Alle
lotte sociali che si moltiplicano in questa fase di crisi sistemica del capitale
contro i licenziamenti, l'occupazione militare e la devastazione dei territori,
l'attacco alle pensioni, al lavoro e allo stato sociale, si risponde con la
moltiplicazione dell’attività repressiva degli apparati dello stato e con la
restrizione delle libertà democratiche.
Un
filo rosso, quindi, che passa anche per i dispositivi penali rispolverati dai
tempi bui della storia del nostro paese, come il reato di devastazione e
saccheggio.
Non
possiamo permettere che, dopo dieci
anni, Genova finisca
così.
Invitiamo
tutte/i lavoratori del Ministero dell’Economia e delle Finanze a far sentire la
propria voce firmando l’appello che chiede l’annullamento della condanna per
devastazione e saccheggio per tutti gli imputati e le
imputate.
E’
una battaglia che riguarda la libertà di tutte e
tutti.
L’appello
lo trovate qui
Lavoratori
Autorganizzati
Ministero
dell'Economia e delle Finanze
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