Ministero dell'Economia e delle Finanze

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martedì 31 luglio 2012

Morire di fame o morire di tumore?



Lo stabilimento siderurgico di Taranto è una bomba a cielo aperto.
Lo è sempre stato, da oltre mezzo secolo, da quando negli anni 50 polizia e carabinieri sgomberarono, con la forza, centinaia di contadini poveri dagli oliveti e mandorleti; espropriati per fare posto alla tomba industriale di centinaia di operai e di proletari dei quartieri più vicini.
Da allora, la strage di vite umane, espressa in primo luogo come morti, malattie e infortuni fra gli operai e, successivamente, come morti e malattie fuori dallo stabilimento, è stata pratica quotidiana in fabbrica e in città.
Turni massacranti, materiali dannosi, amianto, idrocarburi policiclici aromatici, polveri di ogni tipo: nulla è mancato nell’organizzazione dello sfruttamento operaio, per provocare la morte, la malattia, l’infortunio per gli schiavi salariati del più grande complesso siderurgico europeo.
Gli operai hanno pagato più di tutti, in questi 50 anni; dopo di loro, i proletari dei quartieri operai e poi gli altri abitanti di Taranto.
In nome della strenua difesa del profitto capitalistico per 50 anni tutto, o quasi tutto, è stato taciuto, nascosto, dimenticato.
I padroni sono cambiati: primo lo stato con l’Italsider, poi gli azionisti della famiglia Riva, ma lo sfruttamento è solo cresciuto, l’inquinamento, dentro e fuori la fabbrica, è solo aumentato.
Anche la classe politica è cambiata più volte, ma i suoi esponenti di turno, hanno sempre fatto dell’impianto siderurgico il fiore all’occhiello della loro politica per il Sud, il vanto dell’impegno per l’occupazione, l’imbuto di finanziamenti pubblici, statali ed europei, per alimentare i profitti.
Che, poi, lo stabilimento fosse la quotidiana tomba per operai e la causa di morte per altri poveri malcapitati, era questione da tralasciare.
Per reggere il cappello ai padroni, per poter menar vanto del proprio operato, lo specchio del crimine doveva restare terso, pulito.
In 50 anni di sfruttamento, gli operai hanno più volte alzato la testa.
Costretti a lavorare in condizioni disumane e pericolosissime, sottoposti a un regime di fabbrica fra i più militarizzati in Italia, confinati in aree lager, fra mille difficoltà, hanno combattuto contro lo sfruttamento e la barbarie in fabbrica, contro le morti alla catena, contro l’amianto e i problemi cardio-respiratori, contro gli aguzzini padronali e i dirigenti sindacali collaborazionisti.
E lo hanno fatto da soli.
Per anni, davanti alla morte dei colleghi, gli operai sono scesi spontaneamente in sciopero, perché i sindacalisti "con giacca e cravatta" hanno sempre cianciato di rispetto delle regole antinfortunistiche.
Per decenni, fra estreme difficoltà, gli operai sono stati i primi, e spesso i soli, a denunciare il bestiale inquinamento provocato dentro e fuori la fabbrica, dell’assenza di volontà di adottare tutte le misure realmente utili per eliminare il massacro delle persone e dell’ambiente.
Sono stati gli unici a scagliarsi contro l’efferata equazione profitto privato uguale disastro sociale.
La vecchia generazione operaia è andata via, straziata dalle frustate dello sfruttamento e della malattia. È stata sostituita da una nuova generazione, ancora più consapevole, benché più ricattabile con i contratti di formazione e lavoro, e mille altre forme di precarietà lavorativa.
Ma i problemi sono rimasti, anzi si sono incancreniti.
La crisi dell’acciaio ha fatto premere ai padroni, in maniera ancora più schiacciante, l'acceleratore dello sfruttamento sulle spalle dei giovani operai e ha aumentato il totale disinteresse, perché poco remunerativo, della lotta all'inquinamento e alla salubrità del posto di lavoro e della città.
Ma, grazie alle lotte degli operai e alle battaglie ambientaliste, si è formata e radicata a Taranto una coscienza sociale e civile sui disastrosi effetti dell’inquinamento causato dalla fabbrica sulla popolazione e sull’ambiente.
Una consapevolezza ambientalista sempre più diffusa e critica dei danni sociali della bomba a cielo aperto costituita dall’Ilva.
Ma, proprio per fronteggiare tale presa di coscienza collettiva, da tempo, il "sistema" hanno organizzato una contrapposizione netta fra ambientalisti e operai, presentati, a seconda del momento e della convenienza.
Gli uni come alfieri della difesa dell’ambiente e, quindi, della chiusura della fabbrica, senza alcuna preoccupazione per il mantenimento dell’occupazione, della salvaguardia del lavoro degli operai; gli altri, come arcigni egoisti difensori del loro posto di lavoro, senza alcuna sensibilità per la tutela dell’ambiente.
Una contrapposizione, una divisione che ha fatto sempre gli interessi della famiglia padronale.
Ora che un giudice ha disposto l’arresto domiciliare per i padroni e i più alti dirigenti dell’Ilva, insieme al sequestro di alcune aree della fabbrica, senza facoltà d’uso, emergono i reali interessi sostenuti dalla diverse parti.
Gli operai scendono in sciopero e occupano le strade per mantenere il posto di lavoro. E hanno ragione: se rimangono sul lastrico dove lo trovano un altro lavoro in una terra che non offre alcun’altra prospettiva?
Anzi, una parte di questi, chiede proprio ai padroni della fabbrica di continuare a produrre infischiandosene di ambientalisti e provvedimenti di legge: ma, davanti al ricatto "o il lavoro o l’ambiente", abbandonati da tutti, lasciati soli con i propri problemi, è normale che possano vedere, nella continuità produttiva, la soluzione immediata alla fame.
Come accadde 10 anni fa col sequestro dell’impianto petrolchimico di Gela, la questione probabilmente sarà risolta in una bolla di sapone che lascerà tutto come prima.
Questo è il capitalismo; ed è questo lo stillicidio di sopraffazione, di arroganza, di morte e di dolore.
Illudersi, come fanno in tanti tesi a eliminare gli aspetti più scabrosi della società capitalista per purificarla e salvarla, è vano.
Agli operai dell'Ilva, alla società civile, alle nuove generazioni spetta, dunque, il duro compito di spezzare le illusioni, di lottare per un lavoro a misura dell’uomo e non del profitto e, quindi, per un ambiente sano e non rovinato proprio dalla ricerca continua del profitto a tutti i costi.
Nella lotta, tra mille difficoltà e sofferenze, si impara che nel capitalismo è impossibile salvare capra e cavoli, ottenere l’uno e l’altro.
O si sta con il lavoro o con il profitto.

venerdì 20 luglio 2012

Per non dimentiCARLO.


Pochi giorni fa, in Piazza Alimonda, a Genova, i soliti ignoti hanno danneggiato la targa in memoria di Carlo Giuliani, imbrattandola con un getto di inchiostro nero.
Pensavamo che fosse una targa destinata a rimanere lì, sfidando il tempo per fare memoria.
Invece abbiamo scoperto che è un termometro dell’intolleranza, una cartina di tornasole della vigliaccheria, una centralina di rilevamento della bestialità.
Ancora una volta, in piazza Alimonda emerge il meglio e il peggio della società, e la vitalità di un marmo, inerte solo in apparenza, si anima per diventare megafono di denuncia dell’anticultura repressiva più brutale.
Ma non ci siamo rattristati per questo episodio, perché siamo convinti che servirà da monito per i tanti, i troppi che vogliono chiudere quella parentesi aperta undici anni fa, per lasciarsi alle spalle quello che dovremmo tenere sempre davanti a futura memoria.
Infatti, noi siamo testardi e pensiamo che continuare a fare memoria sia lo strumento per ottenere un giorno la verità.
Perché dobbiamo riuscire a evitare che ciò che è accaduto, possa ancora accadere.
E' una strada impervia, piena di ostacoli, ne siamo consapevoli.
La recente decisione della Cassazione che ha reso definitive condanne che risultano spropositate rispetto alla sostanziale impunità di chi ha ucciso, torturato, massacrato e verso chi ha ordinato quei massacri e assicurato protezione, ne è l'esempio. Dopo 11 anni, non bastava Carlo, si sono voluti prendere altre vite; un chiaro monito.
Per questa ragione invitiamo tutte/i che in questi anni hanno capito quanto è importante la memoria, a venire oggi, 20 luglio 2012, dalle ore 15, in piazza Alimonda.
Ci sarà la musica, la poesia, le parole, il loro significato autentico, le parole che contano.
Staremo insieme con Carlo.


mercoledì 18 luglio 2012

La povertà tecnica.


L'11,1% delle famiglie sono povere.
Oltre 8 milioni di persone.
Una famiglia su quattro risulta povera al Sud.
Il 7,6% delle famiglie è appena sopra la soglia della povertà.
Il 40% del totale delle famiglie presentano difficoltà nell'arrivare alla fine del mese.
Disoccupazione, precarietà, supersfruttamento dilagano nel lavoro privato come in quello pubblico.
A maggio 2012 il debito pubblico italiano é salito ad un nuovo record, attestandosi a 1.966,303 miliardi di euro.
Le entrate tributarie nei primi cinque mesi del 2012 si sono attestate a quota 142,101 miliardi di euro, in aumento dell'1,14%.

Lo spread Btp-Bund oscilla sotto la soglia dei 500 punti.
Questi dati non fanno altro che confermare la regola che le politiche neoliberiste portano, ai lavoratori e ai settori popolari, solo miseria e povertà.


sabato 14 luglio 2012

DOTAZIONE ORGANICA: ripartizione del personale.


Trasmettiamo ai lavoratori lo schema di D.M. concernente la ripartizione della dotazione organica del personale nei Dipartimenti e nelle articolazioni territoriali del nostro Ministero.
Segnaliamo che questa ripartizione fa riferimento all'attuazione di quanto previsto dal D.L. 13 agosto 2011 n. 138, convertito con Legge 14 settembre 2011 n. 148, che ha previsto, entro il 31 marzo 2012, l'obbligo da parte dell'amministrazione di apportare un'ulteriore riduzione degli uffici dirigenziali di livello non generale e delle relative dotazioni organiche, unitamente a quello del personale non dirigenziale, in misura non inferiore del 10% di quelle risultanti a seguito dell’applicazione del D.L. 30 dicembre 2009 n. 194, convertito con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2010 n. 25.
La nuova dotazione organica del personale appartenente alle qualifiche dirigenziali di seconda fascia e di quello delle aree è stata rideterminata con D.P.C.M. 29 febbraio 2012.
Di fatto, sia questa dotazione organica che la conseguente ripartizione, risultano già superate in relazione all'intervento del D.L. 27 giugno 2012 n. 87 che prevede, all'art. 4 comma 1 lettera a), un'ulteriore riduzione, entro il 31 ottobre 2012, degli uffici dirigenziali di livello generale e di livello non generale, e delle relative dotazioni organiche, in misura non inferiore del 20%; alla lettera b), la rideterminazione delle dotazioni organiche del personale non dirigenziale, con un'ulteriore riduzione non inferiore al 10% della spesa complessiva relativa al numero dei posti di organico di tale personale risultante a seguito dell'applicazione dell'articolo 1 del D.L. n. 138/2011.
La parte pubblica ha convocato i rappresentanti nazionali delle organizzazioni sindacali il giorno 17 luglio 2012, alle ore 16, per la consultazione sul predetto D.M. di ripartizione.
Si tratta di una delle ultime farse messe in scena, in quanto il D.L. 6 luglio 2012 n. 95, il famoso "stalking review", all'art. 18 comma a) prevede la sostituzione, nell'art. 6, comma 1 del D.Lgs 30 marzo 2001 n. 165, delle parole "previa consultazione delle organizzazioni sindacali rappresentative" con "previa informazione, preventiva o successiva, delle organizzazioni sindacali rappresentative ove prevista nei contratti di cui all'articolo 9".
L'art. 6 comma 1 del D.Lgs 165/01 tratta di "Organizzazione e disciplina degli uffici e dotazioni organiche".
Il 18 luglio 2012, alle 15.30, le parti si incontreranno sul nuovo CCNI d'Amministrazione.

giovedì 12 luglio 2012

Gli aiuti della BCE.




In Spagna arrivano 30 miliardi di euro di "aiuti" europei ma, contrariamente a quanto è lasciato intendere nell'immaginario collettivo, non sono destinati agli spagnoli, ma alle banche che ne hanno estrema necessità per calmierare temporaneamente la propria fame bulimica.
I cittadini spagnoli, in compenso, stanno intascando anche loro i propri miliardi ma, purtroppo, non si tratta di euro bensì di bastonate, sia in senso metaforico sia in quello letterale del termine.
Il senso metaforico, ma anche drammaticamente concreto, trova fondamento nella nuova manovra lacrime e sangue da 65 miliardi di euro, varata dal governo per compiacere la BCE e le banche: la manovra imposta dalla BCE, infatti, prevede una lunga serie di "doni" per il popolo spagnolo, tra cui il taglio delle tredicesime e delle ferie per i dipendenti pubblici, l'aumento di 3 punti percentuali dell'IVA.
Gli stessi doni che hanno regalato anche qui in Italia, con le manovre di fine anno, con l’attacco al sistema previdenziale pubblico e al mondo del lavoro, con la riduzione degli ammortizzatori sociali e, infine, con la spending review che licenzia i dipendenti statali, riduce lo stato sociale e privatizza beni e servizi comuni.
Ancora prima, i doni sono giunti anche al popolo greco.
Il senso letterale del termine, invece, lo troviamo nei pestaggi selvaggi dispensati dalla polizia nei confronti dei minatori spagnoli che protestano per i difendere i propri sacrosanti diritti.
Le cariche, i pestaggi selvaggi e gli assalti, durante i quali la polizia non ha lesinato il regalino nell'uso dei proiettili di gomma provocando il ferimento di decine di manifestanti, persino di bambini, hanno seguito un copione che conosciamo bene, basato sul soffocare qualsiasi accenno di protesta.
Smantellamento della sovranità popolare, sudditanza al sistema bancario, eliminazione del welfare e dei servizi al cittadino, allargamento della fascia di disoccupazione in modo da contribuire ad aumentare il dumping sociale, eutanasia dei diritti e repressione feroce di ogni protesta che possa intralciare il cammino intrapreso, sono i doni che tutti gli strati popolari del vecchio continente ricevono dall’Europa delle banche e dei pescecani della finanza.
Quindi, nessuna invidia o gelosia, perché i doni della BCE sono uguali per tutti.

mercoledì 4 luglio 2012

Genova non è finita.


Nel luglio del 2001 ci recammo a Genova per gridare, ai potenti del G8, “un altro mondo è possibile”.
Un mondo dove le scelte politiche non fossero dettate dalle banche e dagli speculatori; dove la voce dei molti, non fosse zittita dall’arroganza dei pochi.
Da una parte c’era il “movimento dei movimenti”, la più imponente ondata di mobilitazione collettiva dalla fine degli anni Settanta, dove la cifra distintiva della pluralità ne costituiva la forza e l’imponenza.
Dall’altra, i governi e il potere economico che, a Genova, trovarono il teatro ideale per la rappresentazione della tragedia, il cui finale doveva essere uno e uno solo: fare degli anni a venire un deserto dell’opposizione sociale, per dare libero sfogo alla globalizzazione selvaggia, al neoliberismo rampante, alla finanza da rapina.
La gestione dell’ordine pubblico nei giorni del G8 genovese del luglio del 2001, rappresenta una ferita ancora oggi aperta nella storia recente della Repubblica Italiana.
Dieci anni dopo l’omicidio di Carlo Giuliani, non solo non sono stati individuati i responsabili della “macelleria messicana” avvenuta nella scuola Diaz, delle torture nella caserma di Bolzaneto, delle violenze e dei pestaggi nelle strade genovesi, ma chi gestì allora l’ordine pubblico a Genova ha percorso una brillante carriera.
Mentre lo Stato assolve se stesso da quella che Amnesty International ha definito “la più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”, il prossimo 13 luglio dieci persone rischiano di diventare i capri espiatori e vedersi confermare, in Cassazione, una condanna a cento anni di carcere complessivi, in nome di un reato, “devastazione e saccheggio”, che rappresenta uno dei tanti detriti giuridici, figli del codice penale fascista, il cosiddetto Codice Rocco.
Un reato concepito nel chiaro intento, tutto politico, di perseguire chi si opponeva al regime fascista.
Oggi è utilizzato ipotizzando una “compartecipazione psichica”, anche quando non sussiste associazione vera e propria tra le persone imputate; recuperato per annichilire qualsiasi espressione del dissenso, uno spauracchio ingombrante, grazie al quale è più facile comminare pene enormi a chi si vuole colpire.
Pene persino superiori a quelle previste per reati come l’omicidio.
In questo modo, quindi, si lascia alla completa discrezionalità politica degli inquirenti e dei giudici il compito di decidere se applicarlo o meno.
E’ inaccettabile che, a ottant’anni di distanza, quest’aberrazione giuridica rimanga nel nostro ordinamento e sia usata per condannare eventi di piazza così importanti, che hanno coinvolto centinaia di migliaia di persone, come le mobilitazioni contro il G8 a Genova nel 2001.
In questi 11 anni, in Italia e non solo, i governi hanno dato vita ad una sperimentazione continua degli apparati di controllo, costituita dal connubio indissolubile tra la le misure repressive attuate nelle piazze e i sottili meccanismi preventivi e punitivi.
Alle lotte sociali che si moltiplicano in questa fase di crisi sistemica del capitale contro i licenziamenti, l'occupazione militare e la devastazione dei territori, l'attacco alle pensioni, al lavoro e allo stato sociale, si risponde con la moltiplicazione dell’attività repressiva degli apparati dello stato e con la restrizione delle libertà democratiche.
Un filo rosso, quindi, che passa anche per i dispositivi penali rispolverati dai tempi bui della storia del nostro paese, come il reato di devastazione e saccheggio.
Non possiamo permettere che, dopo dieci anni, Genova finisca così.
Invitiamo tutte/i lavoratori del Ministero dell’Economia e delle Finanze a far sentire la propria voce firmando l’appello che chiede l’annullamento della condanna per devastazione e saccheggio per tutti gli imputati e le imputate.
E’ una battaglia che riguarda la libertà di tutte e tutti.

L’appello lo trovate qui
Lavoratori Autorganizzati
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