Lo stabilimento
siderurgico di Taranto è una bomba a cielo aperto.
Lo è sempre stato, da
oltre mezzo secolo, da quando negli anni 50 polizia e carabinieri sgomberarono,
con la forza, centinaia di contadini poveri dagli oliveti e mandorleti;
espropriati per fare posto alla tomba industriale di centinaia di operai e di
proletari dei quartieri più vicini.
Da allora, la strage
di vite umane, espressa in primo luogo come morti, malattie e infortuni fra gli
operai e, successivamente, come morti e malattie fuori dallo stabilimento, è
stata pratica quotidiana in fabbrica e in città.
Turni
massacranti, materiali dannosi, amianto, idrocarburi policiclici aromatici,
polveri di ogni tipo: nulla è mancato nell’organizzazione dello sfruttamento
operaio, per provocare la morte, la malattia, l’infortunio per gli schiavi
salariati del più grande complesso siderurgico europeo.
Gli operai hanno
pagato più di tutti, in questi 50 anni; dopo di loro, i proletari dei quartieri operai e poi gli altri abitanti di
Taranto.
In nome della strenua
difesa del profitto capitalistico per 50 anni tutto, o quasi tutto, è stato
taciuto, nascosto, dimenticato.
I padroni sono
cambiati: primo lo stato con l’Italsider, poi gli azionisti della famiglia Riva,
ma lo sfruttamento è solo cresciuto, l’inquinamento, dentro e fuori la fabbrica,
è solo aumentato.
Anche la classe
politica è cambiata più volte, ma i suoi esponenti di turno, hanno sempre fatto
dell’impianto siderurgico il fiore all’occhiello della loro politica per il Sud,
il vanto dell’impegno per l’occupazione, l’imbuto di finanziamenti pubblici,
statali ed europei, per alimentare i profitti.
Che, poi, lo
stabilimento fosse la quotidiana tomba per operai e la causa di morte per altri
poveri malcapitati, era questione da tralasciare.
Per reggere il
cappello ai padroni, per poter menar vanto del proprio operato, lo specchio del
crimine doveva restare terso, pulito.
In 50 anni di sfruttamento, gli operai hanno più volte alzato la testa.
In 50 anni di sfruttamento, gli operai hanno più volte alzato la testa.
Costretti a lavorare
in condizioni disumane e pericolosissime, sottoposti a un regime di fabbrica fra
i più militarizzati in Italia, confinati in aree lager, fra mille difficoltà,
hanno combattuto contro lo sfruttamento e la barbarie in fabbrica, contro le
morti alla catena, contro l’amianto e i problemi cardio-respiratori, contro gli
aguzzini padronali e i dirigenti sindacali collaborazionisti.
E lo hanno fatto da
soli.
Per anni, davanti
alla morte dei colleghi, gli operai sono scesi spontaneamente in sciopero,
perché i sindacalisti "con giacca e cravatta" hanno sempre cianciato di rispetto
delle regole antinfortunistiche.
Per decenni, fra
estreme difficoltà, gli operai sono stati i primi, e spesso i soli, a denunciare
il bestiale inquinamento provocato dentro e fuori la fabbrica, dell’assenza di
volontà di adottare tutte le misure realmente utili per eliminare il massacro
delle persone e dell’ambiente.
Sono stati gli unici
a scagliarsi contro l’efferata equazione profitto privato uguale disastro
sociale.
La vecchia
generazione operaia è andata via, straziata dalle frustate dello sfruttamento e
della malattia. È stata sostituita da una nuova generazione, ancora più
consapevole, benché più ricattabile con i contratti di formazione e lavoro, e
mille altre forme di precarietà lavorativa.
Ma i problemi sono
rimasti, anzi si sono incancreniti.
La crisi dell’acciaio
ha fatto premere ai padroni, in maniera ancora più schiacciante,
l'acceleratore dello sfruttamento sulle spalle dei giovani operai e ha aumentato
il totale disinteresse, perché poco remunerativo, della lotta all'inquinamento e
alla salubrità del posto di lavoro e della città.
Ma, grazie alle lotte
degli operai e alle battaglie ambientaliste, si è formata e radicata a Taranto
una coscienza sociale e civile sui disastrosi effetti dell’inquinamento causato
dalla fabbrica sulla popolazione e sull’ambiente.
Una consapevolezza
ambientalista sempre più diffusa e critica dei danni sociali della bomba a cielo
aperto costituita dall’Ilva.
Ma, proprio per
fronteggiare tale presa di coscienza collettiva, da tempo, il "sistema" hanno
organizzato una contrapposizione netta fra ambientalisti e operai, presentati, a
seconda del momento e della convenienza.
Gli uni come alfieri
della difesa dell’ambiente e, quindi, della chiusura della fabbrica, senza
alcuna preoccupazione per il mantenimento dell’occupazione, della salvaguardia
del lavoro degli operai; gli altri, come arcigni egoisti difensori del loro
posto di lavoro, senza alcuna sensibilità per la tutela
dell’ambiente.
Una contrapposizione,
una divisione che ha fatto sempre gli interessi della famiglia padronale.
Ora che un giudice ha disposto l’arresto domiciliare per i padroni e i più alti dirigenti dell’Ilva, insieme al sequestro di alcune aree della fabbrica, senza facoltà d’uso, emergono i reali interessi sostenuti dalla diverse parti.
Ora che un giudice ha disposto l’arresto domiciliare per i padroni e i più alti dirigenti dell’Ilva, insieme al sequestro di alcune aree della fabbrica, senza facoltà d’uso, emergono i reali interessi sostenuti dalla diverse parti.
Gli operai scendono
in sciopero e occupano le strade per mantenere il posto di lavoro. E hanno
ragione: se rimangono sul lastrico dove lo trovano un altro lavoro in una terra
che non offre alcun’altra prospettiva?
Anzi, una parte di
questi, chiede proprio ai padroni della fabbrica di continuare a produrre
infischiandosene di ambientalisti e provvedimenti di legge: ma, davanti al
ricatto "o il lavoro o l’ambiente", abbandonati da tutti, lasciati soli con i
propri problemi, è normale che possano vedere, nella continuità produttiva, la
soluzione immediata alla fame.
Come accadde 10 anni
fa col sequestro dell’impianto petrolchimico di Gela, la questione probabilmente
sarà risolta in una bolla di sapone che lascerà tutto come prima.
Questo è il capitalismo; ed è questo lo stillicidio di sopraffazione, di arroganza, di morte e di dolore.
Questo è il capitalismo; ed è questo lo stillicidio di sopraffazione, di arroganza, di morte e di dolore.
Illudersi, come fanno
in tanti tesi a eliminare gli aspetti più scabrosi della società capitalista per
purificarla e salvarla, è vano.
Agli operai
dell'Ilva, alla società civile, alle nuove generazioni spetta, dunque, il duro
compito di spezzare le illusioni, di lottare per un lavoro a misura dell’uomo e
non del profitto e, quindi, per un ambiente sano e non rovinato proprio dalla
ricerca continua del profitto a tutti i costi.
Nella lotta, tra
mille difficoltà e sofferenze, si impara che nel capitalismo è impossibile
salvare capra e cavoli, ottenere l’uno e l’altro.
O si sta con il
lavoro o con il profitto.