Ministero dell'Economia e delle Finanze

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mercoledì 28 novembre 2012

La produttività dei padroni.


Nell'ultima settimana il paese è stato attraversato da un’ondata di proteste.
Decine di migliaia di studenti, principalmente delle scuole medie superiori, sono scesi in piazza per contestare le politiche del governo e della Banca Centrale Europea.
La radicalità espressa dalle mobilitazioni e la prevedibile brutalità con cui la polizia ha tentato di reprimerle, sono state le notizie che hanno monopolizzato il dibattito pubblico sui media.
Quasi per paradosso, il destino ha voluto che proprio nelle stesse ore, nel silenzio generale, si stesse portando a compimento uno dei principali obiettivi del governo e del padronato nostrano: l’accordo sulla produttività.
Ancora oggi, con la pagliacciata delle primarie, la coltre del silenzio continua ad avvolgere questo gravissimo fatto.
L’accordo sulla produttività non è nient’altro che la naturale evoluzione dello scellerato accordo interconfederale del 28 giugno 2011 con cui le parti sociali (Cgil compresa), s’impegnavano a dare centralità alla cosiddetta contrattazione di secondo livello.
Con la nuova intesa, quindi, si stabiliscono le basi per procedere ai numerosi rinnovi contrattuali che ci saranno nel prossimo futuro, in primis quello dei metalmeccanici.
Ma cosa prevede l’accordo sulla produttività?
Verrebbe da dire niente di nuovo o, meglio, un vero e proprio ritorno al passato, al cottimo per la precisione.
In realtà non si tratta di una novità assoluta, poiché in tutte le aziende, tra le quali anche la nostra anche se pubblica amministrazione, dove è presente una contrattazione di secondo livello, parte del salario è già agganciato al raggiungimento di obiettivi: l’intento dichiarato dalle parti in questo nuovo accordo è di aumentare questa percentuale a discapito della contrattazione collettiva.
Aumentare la produttività significa aumentare la quantità di merci o servizi prodotti in un determinato tempo rispetto a quanto fatto in precedenza cioè, in parole povere, lavorare più intensamente, aumentare il livello di sfruttamento e, quindi, i margini di profitto.
Per far sì che i lavoratori subiscano senza troppe rimostranze quest’ennesimo attacco, il governo dal canto suo s’impegna, a seguito della firma dell’accordo da parte dei sindacati, ad emettere un provvedimento che abbassi il prelievo fiscale sugli incentivi alla produzione.
Si tratta in parte della famosa “paccata” di miliardi promessa dalla Fornero che nessuno ha mai visto e che doveva, tra l’altro, estendere anche gli ammortizzatori sociali.
In pratica, il lavoratore dovrebbe accusare meno il colpo perché, pagando un po’ meno tasse, non troverà grosse differenze in busta paga, o addirittura talvolta qualche spicciolo in più; peccato, però, che proprio per colmare quelle minori entrate l’esecutivo dovrà prontamente ridurre le uscite e, quindi, tagliare ancora di più sui servizi come scuola, sanità e trasporti.
Alla fine della fiera, quindi, ci troveremo ad aver lavorato di più e ad avere meno in termini di salario indiretto.
Tutto questo al netto delle “truffe” che normalmente operano le grandi aziende e che ben conoscono i lavoratori visto che spesso, pur di non pagare i premi, si ricorre a cavilli inseriti ad arte nei contratti e che puntualmente vengono trascurati dai sindacati in sede di trattativa.
Il governo ha più volte posto l’accento che la questione della produttività è il nodo centrale e che questa intesa è di vitale importanza per il futuro del nostro paese, in particolare per quanto concerne l’aspetto dell’occupazione.
Come abbiamo detto in precedenza, quest’accordo incide direttamente sui livelli di profittabilità e tanto basta a chiarire quali interessi ha a cuore il governo, ma più sottile è capire come ciò si collega alle politiche per l’impiego.
A nessuno, infatti, sfugge il fatto che se si lavora di più c’è bisogno di meno personale e, quindi, un aumento della produttività determina automaticamente una diminuzione dei livelli occupazionali.
Ebbene, nei fatti con questo accordo si palesa chiaramente qual è l’unica strategia del governo per l’occupazione: partecipare a livello internazionale alla gara al ribasso del costo del lavoro nella speranza di intercettare gli investimenti stranieri.
La Cisl, la Uil e l’Ugl hanno già sottoscritto, mentre la Cgil no.
Ma la mancata sottoscrizione della Cgil, a differenza di quanto si possa immaginare, non riguarda i contenuti dell’accordo (che sono pienamente condivisi), ma tutt’altra questione, che esula dai temi oggetto di trattativa, quale l’ammissione, per esempio, della Fiom al tavolo per il rinnovo del CCNL dei metalmeccanici.
Quindi, ancora una volta la parte datoriale, il governo e i sindacati pensano di dare “slancio” al paese colpendo i diritti dei lavoratori.
L'accordo sulla produttività non è altro che un ulteriore frutto avvelenato, una soluzione di comodo sulla pelle dei più deboli: riduzione dei salari reali, nessuna detassazione sulle tredicesime, contrattazione aziendale a discapito di quella nazionale, così da legittimare i ricatti di datori di lavoro come la Fiat insegna.
Infatti, la sostituzione della contrattazione aziendale e individuale a quella collettiva e nazionale indebolirà ancora di più la capacità contrattuale dei lavoratori, sia in gruppo che singoli.
Saremo ancora più deboli e, di conseguenza, la nostra condizione, che dipende dai rapporti di forza, non dalle regalie del padrone o dalle fasi di sviluppo, sempre o spesso contingenti, sarà peggiore.
Bisogna, pertanto, spiegare bene questa truffa dell’accordo sulla produttività perché altrimenti, in questa situazione di incultura e regressione politica e sindacale dilagante, può sembrare giusta e moderna.
Il nostro principio base era ed è tuttora che a "uguale lavoro, uguale salario", con l’idea portante che l'unificazione dei lavoratori di ogni categoria in un fronte coeso e compatto permette di costituire la massa critica atta a contrastare lo strapotere padronale e a garantire, collettivamente e per ciascuno, miglioramenti salariali e normativi altrimenti irraggiungibili.
Quella idea era ed è profondamente giusta.
Non è un caso che oggi viene rovesciata.
 

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