Non è mai accaduto
che non fosse pagato, nel cedolino stipendiale di giugno, una parte del
salario accessorio.
Lo scorso anno, a
giugno, i lavoratori del MEF percepirono le risorse aggiuntive provenienti da
convenzioni e la cartolarizzazione.
A luglio 2014, il
rimborso saldo IRPEF; ad agosto 2014 lo straordinario dei primi 6 mesi
dell’anno e la quota dell’80% del FUA 2013.
Quest’anno, nulla.
Anzi, dalle veline
sindacali, ormai vere e proprie agenzie di stampa dell’amministrazione, si è
appreso che “il pagamento delle somme accessorie dovrebbe avvenire, salvo
ulteriori complicazioni, tra il mese di agosto e settembre”.
Insomma, sempre
salvo ulteriori complicazioni.
Da anni il salario
accessorio è diventato una parte consistente della retribuzione per scelte sia
politiche che sindacali e siamo ben consapevoli dell’uso che viene fatto della
parte integrativa delle retribuzioni.
Anziché richiedere
la stabilizzazione di queste somme, da percepire in via fissa e continuativa,
si è scelto quello di utilizzarle come arma di ricatto, come strumento
clientelare, come elemento di divisione dei lavoratori e di sperequazioni.
E’ di tutta
evidenza, però, e non siamo certamente degli ipocriti, riconoscerne la loro
importanza in un contesto in cui gli stipendi sono bloccati da anni e di come
questa integrazione salariale rappresenti l’unica possibilità per attenuare il
morso della crisi del capitale che paghiamo quotidianamente.
Quindi, molti
lavoratori aspettavano questo momento con ansia, sicuri di ricevere una
“boccata di ossigeno” per andare avanti, per affrontare la sofferenza della
sopravvivenza proprio mentre ci continuano ad uccidere con le scadenze fiscali,
a partire dalla TARSI, dall’IMU e dalla TASI.
Più volte lo abbiamo
sostenuto, ma lo ripetiamo ugualmente; ci troviamo di fronte ad un odio di
classe, ad una lotta di classe alla rovescia con la quale pezzo dopo pezzo, le
classi dominanti si riprendono tutto, strangolandoci lentamente.
Questo sistema,
quindi, ci sta uccidendo impoverendoci giorno dopo giorno, perché oltre a
considerarci un costo, ormai siamo diventati un vero e proprio bancomat con il
quale ripianare i conti, ricoprire le voragini da loro create, sanare
corruzione e malaffare, rimpinguare i pescecani della finanza e il sistema
bancario.
Sembra
un’esagerazione, ma è così e sfidiamo chiunque a dimostrare il contrario.
Persino Papa
Francesco, nella sua enciclica, ha sostenuto che “il salvataggio a ogni
costo delle banche, facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma
decisione di rivedere e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio
assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi
dopo una lunga, costosa e apparente cura”.
Invece, il nuovo
"modello sociale", che da anni hanno improntato, è plasmato sui
criteri della competitività, sul lavoro flessibile, pagato poco, senza
inutili rigidità come quelle garantite dai diritti, da un salario dignitoso,
senza servizi sociali o miracolose attese per la vita dopo il lavoro.
Ma non gli basta; ttip, jobs act, civic act, scuola e pubblica amministrazione
sono alcuni dei prossimi provvedimenti.
Il ciclo di vita,
quindi, si deve consumare per intero dentro la fase produttiva in una
condizione di miseria e precarietà; e anche il dopo, non è un problema del
capitale e dell'economia.
Se hai una
struttura, una rete familiare e rendite che ti garantiscono, bene;
altrimenti spegniti povero, muori senza dare
ulteriore fastidio, senza pretendere stipendi e pensioni dignitose, cure,
reddito, casa, assistenza pubblica, welfare.
In tempi di crisi,
di sovrapproduzione di capitale, per rilanciare l’accumulazione della ricchezza
oltre all’eliminazione della capacità produttiva in eccesso, la classe
dominante utilizza anche il dimagrimento sociale
attraverso l'impoverimento di massa, l'abbattimento dei diritti, i
licenziamenti, la mobilità, la precarietà, i suicidi e gli omicidi sui
luoghi di lavoro.
Quindi, l’erogazione
o meno del salario accessorio, a nostro parere, rientra perfettamente in questa
logica.
Ma quello che ci
preoccupa di più è la solitudine della disperazione individuale che non riesce
ad interagire e a coniugare i bisogni e le necessità personali con quelli
collettivi, generando un’aggregazione sociale di contrasto; l’incapacità di non
saper comprendere che la penosità dell’oggi non appartiene al singolo
lavoratore ma è, purtroppo, patrimonio comune ad un’intera classe
sociale dominata.
E per distrarre
l’attenzione dalle vere cause che producono questo impoverimento di massa,
creano ad arte paura e instabilità individuale offrendo in pasto un nemico, un
mostro che è solo immaginario ma che ti inducono a ritenere come la causa di
tutti i tuoi mali; i migranti, lo straniero, il diverso, i campi nomadi, le
ruspe.
L'incapacità di
saper distinguere, di ragionare sulla propria condizione e la rassegnazione
allo stato delle cose, dimostrano, purtroppo, che molti di noi sono già
morti, senza rendersene conto.
Lentamente
muore chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marca o colore dei vestiti,
chi non rischia,
chi non parla a chi non conosce.
Lentamente muore chi evita una passione,
chi vuole solo nero su bianco e i puntini sulle i
piuttosto che un insieme di emozioni;
emozioni che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbaglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti agli errori ed ai sentimenti!
Lentamente muore chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l’incertezza,
chi rinuncia ad inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta di fuggire ai consigli sensati.
Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia e pace in sè stesso.
Lentamente muore chi distrugge l’amor proprio,
chi non si lascia aiutare,
chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna.
Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde quando gli si chiede qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di
gran lunga maggiore
del semplice fatto di respirare!
Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di
una splendida
felicità.
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marca o colore dei vestiti,
chi non rischia,
chi non parla a chi non conosce.
Lentamente muore chi evita una passione,
chi vuole solo nero su bianco e i puntini sulle i
piuttosto che un insieme di emozioni;
emozioni che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbaglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti agli errori ed ai sentimenti!
Lentamente muore chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l’incertezza,
chi rinuncia ad inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta di fuggire ai consigli sensati.
Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia e pace in sè stesso.
Lentamente muore chi distrugge l’amor proprio,
chi non si lascia aiutare,
chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna.
Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde quando gli si chiede qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di
gran lunga maggiore
del semplice fatto di respirare!
Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di
una splendida
felicità.
Pablo Neruda